venerdì 28 dicembre 2007

Morphine's favourites


Il giochino della classifica di fine anno mi è sempre piaciuto. O forse no. Bah.

Comunque, il più bel disco del 2007 mi è sembrato

North Star Deserter di Vic Chesnutt

dietro ci metto:

PJ Harvey - White Chalk

Wooden Wand - James and the Quiet

Elliott Smith - New Moon

Supersilent - 8

Arbouretum - Rites of uncovering

Aa - gAame

Gowns - Red State

Ktl - 2

Stars of the lid - And their refinement of the decline

Fuori dai dieci, ma di poco, Om, Kings of Leon, Six organs of Admittance

lunedì 24 dicembre 2007

i fantasmi di Jason


Non voglio parlare di uno dei più bei dischi che possiedo, ma solo di una canzone di questo. "Incantation" è l'ultimo pezzo di Ghost Tropic, album del 2000 a nome Songs:Ohia, cioè Jason Molina. Tutto è completamente nero in questo disco, tranne le scritta bianca del titolo. I titoli dei pezzi sono all'interno, in un libretto (nero) di due pagine anch'esse piene solo di nero (però sono due, le apri, aspettandoti qualcosa, e invece solo oscurità). E dopo averlo ascoltato quasi tutto in trance arrivi a Incantation. Undici minuti e 50 della summa dell'arte di Molina. Si inizia con quelli che in lontananza sembrano uccelli cinguettanti, poi comincia una tastiera dolente, poi qualche colpo di percussione, la chitarra acustica solo sfiorata. Ed ecco quella voce, quella voce a cui non puoi sfuggire, quella voce che ti rovista nell'anima, e tu te lo vedi, il buon Jason, con la sua camicia di flanella scozzese e il cappello da cowboy più grande di lui, te lo vedi, il suo metro e sessanta che davanti al microfono diventa un gigante. E si rivolge proprio a te, ti chiede di fare attenzione con la notte, che ci si può perdere, e tu ti fidi, del vecchio Jason, perchè con quella voce lì ti fidi per forza. Incantation va via così, poche parole, una struttura minimalista, ma è proprio come ti aspetteresti di sentire la notte, se la notte potesse cantare.

caution, like the moon, hangs on the tracks
blood and the lightning hangs on the tracks and
it spreads through the night

giovedì 20 dicembre 2007

straight hate


Prendiamo atto della genuflessione del PD di fronte a Joey Ratz, a mo' di devota fellatio (anche se il Joey avrebbe sicuro preferito qualcuno di molto molto molto più giovane...), riguardo alla questione delle unioni civili a Roma. Una questione di pura e semplice libertà (ve beh, una delle tante parole senza alcun senso di questo mondo) trasformata dai patetici omini del PD in "questione eticamente sensibile", sempre più bigotti e minati da una "questione vaticana" che nemmeno 50 anni fa. E comunque, siete sfacciatamente cattolici? Cazzo me ne frega, ma per favore non cercate di spacciare la vostra morale confessionale come morale di Stato. In buona sostanza, che si fottano il PD, Ratz e tutti i moralisti lecchini di 'sto paese indecente. Merry Christmas.

martedì 18 dicembre 2007

speciale? normalissimo


Nel dimettersi da un incarico da cui era cessato con effetto immediato (sappiamo tutti perchè) la mattina del 2 giugno scorso, il comandante della guardia di finanza Roberto Speciale ha "dimenticato" di ricordare che, agli inizi dello scorso settembre, aveva tempestivamente fatto valere i suoi diritti di pensionato. Mentre infatti con una mano presentava ricorso per chiedere il proprio reintegro e un risarcimento di 5 milioni di euro (stiamo parlando del tipo che usava l'elicottero della finanza anche per andare in pescheria), con l'altra otteneva dalla pubblica amministrazione (cioè noi) ciò che gli spettava a titolo di anzianità (coda di paglia?), ossia 875.ooo euro. Non pago, il sig. Speciale ha pensato bene di "dimenticarsi" anche che l'uscita dal corpo comportava la restituzione di altri benefit legati alla sua posizione, primo su tutti l'abitazione, cioè un enorme appartamento in centro a Roma. Beh, chissà che ora, dopo aver manifestato il desiderio di "porre fine a una inutile e vergognosa polemica", lo speciale non si cavi davvero dai coglioni. That's Italy, baby.

venerdì 14 dicembre 2007

paranoid gus


Diciamolo subito, Paranoid park è un mezzo capolavoro. Lontano dall'algida bellezza estetica di Elephant, sono ancora gli adolescenti americani (inframezzati dal Kurt Cobain di Last Days) i protagonisti del nuovo film di Gus Van Sant. Soli, angosciati e angoscianti, vuoti, nichilisti. Ma il senso di colpa che annulla la vita del giovane protagonista fora lo schermo, è palpabile, tremendo, come quello di un novello Raskolnikov di dostevskijana memoria. Paranoid Park è il paradiso dello skateboard di Portland (incidentalmente la città di Van Sant), ed è lì che il protagonista, Alex, si caccia in un casino più grande di lui. La vicenda fin dall'inizio mischia la tecnica del giallo a quella della ricostruzione degli eventi tramite flash back, mettendo in essere un mosaico che si compone nella sua interezza solo all'ultimo minuto del film. L'ambiente in cui si muove Alex è agghiacciante, tra famiglie inesistenti, sentimenti vacui, assenza di punti di riferimento, se non autoreferenziali (il mito della ribellione, gli amici, lo skate). Girato con tecnica sopraffina e forte di una fotografia meravigliosa, Paranoid Park è un manifesto dell'angoscia esistenziale adolescenziale che innalza ulteriormente il talento registico di Van Sant. E perfetta è anche la colonna sonora, con Elliott Smith a fare da mattatore.

martedì 11 dicembre 2007

Lui


Questi sono avanti anni luce. Quello che fanno i Fanny & Alexander mi sorprende sempre, il loro teatro è ciò che vado inseguendo da quando a 12 anni rimasi incantato dalla magia del primo festival di Santarcangelo, un’alchimia ineffabile di fantasia, parole, immagini, personaggi, storie, luce, oscurità. Prendiamo allora le loro ultime due opere, K.313 e HIM, provenienti dal lavoro che la compagnia sta conducendo da qualche tempo su Tommaso Landolfi ma le cui radici affondano ormai inestricabilmente nella complessa poetica fannynderiana, fatta di un’attenzione ed un rispetto maniacali per la potenziale semiologia di una drammaturgia intesa in senso lato, di un utilizzo fortemente icastico delle immagini e dei personaggi, di continue esplosioni metatestuali e di un’estetica veicolante significati sfuggenti. In K.313 Chiara Lagani e Marco Cavalcoli sono i protagonisti di un difficile testo di Landolfi, “Breve canzoniere”, in cui due amanti dialogano – in un sottile gioco al massacro – sulle di lui chiamiamole opere letterarie (sonetti, lettere), dunque un prosimetro che alterna una serie di sonetti ai loro commenti. Ben presto risulta chiaro che quello vissuto dalla coppia in scena non è un amore “attraverso” le parole ma è un amore “per” le parole che vengono messe in gioco, lasciando intendere – come quasi sempre accade in Landolfi – che tutta la questione finirà per dover rispondere ad altre, più affilate domande. Ecco quindi che oltre ad interpretare il testo – peraltro magnificamente – la drammaturgia dei Fanny (e questo è invece il loro marchio di fabbrica) vuole ricrearne il meccanismo intrinseco, affidandosi in questo caso a un efficace apparato didascalico volto a trasporre il significato dell’azione scenica altrove, a confonderne le coordinate di partenza. Le maschere da terroristi e la telecamera a infrarossi che riprende la scena e la riproietta alle spalle degli attori danno infatti al già piuttosto angosciante insieme un’altra prospettiva, un ulteriore grado di straniamento. E lo sconcerto – magari anche subdolamente inconscio – è dovuto alle icone ultra-attuali che l’associazione maschere/video mette in essere. Tanto che dopo un po’ si finisce per guardare molto di più lo schermo che gli attori in carne ed ossa, proprio perché è quello il contesto di riferimento a cui siamo abituati. Il finale calato in una fragile penombra riporta poi tutto a una dimensione onirica tesa a rendere ancora più labili i confini di ciò che abbiamo visto. Completamente diverso – ma comunque legato a K.313 da una liaison, chiamiamola così, di “incoerenza contestuale” – è HIM, in cui Marco Cavalcoli (un fenomeno, non saprei come altro definirlo), agghindato appunto come l’opera “Him” di Cattelan, ossia una statua a grandezza naturale di Hitler in ginocchio, doppia in tempo reale e in lingua originale tutto il film “Il mago di Oz”, proiettato alle sue spalle, dando a se stesso e al film anche il tempo, con movenze da direttore d’orchestra (questo personaggio lo ritroveremo in un altro spettacolo di Fanny & Alexander, “Dorothy. Sconcerto per Oz”). L’effetto è ovviamente esilarante (Marco replica ogni cosa, tutti i personaggi, i rumori, le canzoni) e il tutto sconfina immediatamente nel surreale, in virtù di un contrasto assurdo tra l’aspetto del protagonista e quello che sta facendo, peraltro in maniera serissima.

lunedì 3 dicembre 2007

Across the useless


Prendete un manipolo di attori/cantanti giovani e fighi, una regista amante delle belle immagini fini a se stesse (Julie Taylor), 27 canzoni dei Beatles. Aggiungete qualche mea culpa per le mille magagne della recente storia americana, le coreografie dello stra-cool Daniel Ezralow e quel tocco di radical chic che non guasta mai. Frullate tutto per bene, adattando biecamente i testi dei Beatles in chiave americocentrica et voilà! Ecco “Across the universe”, il film del momento, il capolavoro che mette d’accordo pubblico e critica. Un lungo e mieloso musical che sembra in realtà un unico infinito video-spot a favore dell’amore (e che altro?) e dei Fab Four (abbiamo bisogno di qualcuno per farci piacere i Beatles?), con tanto di immancabili camei di Bono e Joe Cocker. E allora via, ogni scusa è buona per i protagonisti (Jude e Lucy, va da sé) per cantarsela e ballarsela; in casa ti arriva la delicata Prudence? Abbiamo la canzone per lei! Il protagonista ce l’ha su con i contestatori del Viet-Nam? Beccati “Revolution”! Jude vuole riconquistare Lucy? Beh, cosa cantare se non “All you need is Love”? Ah, che tenerezza, che belle immagini, che bei tempi!
Arridatece Grease.

venerdì 30 novembre 2007

Dark Knight goes to Arkham


Nella seconda metà degli anni Ottanta una nuova generazione di sceneggiatori e disegnatori irrompe sulla scena dei comics americani, soprattutto quelli editi da Marvel e DC e quindi aventi a che fare con la maggior parte dei supereroi, sull'onda innovativa provocata da gente come John Romita Sr. prima e Frank Miller e Romita Jr. poi. Il la lo dà Miller nel 1986 con "Batman: the Dark Knight returns", una graphic novel monumentale e intrisa di temi politici in cui l'Uomo Pipistrello diventa un antieroe lontano anni luce dagli standard abituali. Tocca poi al canadese Todd McFarlane reinventare completamente Spiderman, grazie a uno stile del tutto nuovo, ipercinetico, che rompe gli schemi del comic book. Sempre nell'86 altri due capolavori come "Watchmen" di Alan Moore e Dave Gibbons (con Moore che veniva dall'immenso "V for Vendetta") e "Elektra: Assassin" di Miller e Bill Sienkiewicz completeranno la rivoluzione della figura del supereroe e del modo di disegnarlo. Non più il difensore dei deboli e della libertà in costume sgargiante, ma uomo cupo, prigioniero del proprio personaggio, impuro, ossessionato dal passato, da mille problemi, dal peso delle responsabilità, rappresentato con forme e oscure sfumature cromatiche che nulla hanno a che fare con la tradizione. Ma il picco di questa nuova tendenza viene raggiunto nel 1990 con la graphic novel "Arkham Asylum: a serious house on serious earth", scritta da Grant Morrison e disegnata magistralmente da Dave McKean. Lo scozzese Morrison, legato da una sorta di amore/odio a Moore, viene chiamato dalla DC, che voleva proseguire nel trend di autori britannici, proprio a sostituire Moore. La sua versione del vecchio gruppo di supereroi della Doom Patrol è la serie che gli dà subito la fama oltreoceano, per il trattamento inconsueto che riesce ad infondere nella sceneggiatura di un fumetto di supereroi. E anche McKean, inglese, tra l'altro ottimo jazzista, viene dal capolavoro "Black Orchid", realizzato con Neil Gaiman. Se nel devastante "Dark Knight returns" Frank Miller ci aveva restituito un Batman più umanamente tormentato e spiritualmente più vicino al comune patire, quello del duo Morrison-McKean che si aggira nell'antico Arkham Asylum (il manicomio di Gotham City) è un Bruce Wayne estremo, abissale, costantemente in fuga da se stesso, in bilico tra una salvezza che il finale annuncia improbabile o sfregiata, e la perdizione definitiva. Dentro Arkham - dove è intervenuto a causa della rivolta dei pazienti (ossia i suoi più storici nemici) - Batman ritrova ovviamente la nemesi The Joker, vero protagonista di tutta la vicenda e chiaro rappresentante del lato più oscuro e malato di Wayne. In questo geniale romanzo visivo Morrison riesce a mischiare con naturalezza l'azione con una visione onirica e decisamente surreale, caratterizzata da vari elementi (dadaismo, supereroismo, strutturalismo, ecc), arrivando a una versione allucinata e psicotica di Batman e dei suoi nemici tuttora insuperata. Non da meno McKean, grazie a un codice iconografico straordinario e vertiginoso. L' artista inglese è un Bacon del fumetto (il lavoro è caratterizzato dalla commistione di varie tecniche, quali disegno tradizionale, fotografia, collage e computre grafica) in cui astrattismo avanguardista, reminiscenze classiche e moderne si fondono naturalmente, per accumulazioni, per sovrapposizioni inaspettate, scolpendo personaggi ora travagliati, lugubri e gotici, ora sfocati ed imprendibili.
Dopo Arkham Asylum la parola "fumetto" suonerà per sempre un po' riduttiva...

sabato 24 novembre 2007

The air is on fire







Che David Lynch fosse un genio non lo scopro certo io. Una sorpresa è stato invece scoprire quanto quest'uomo sia altrettanto geniale in forme d'arte diverse dal cinema, come pittura, fotografia, musica, installazioni materiche (chiamiamole così). Consiglio dunque vivamente una visita alla mostra David Lynch. The air is on fire, aperta alla Triennale di Milano fino al 13 gennaio. Ho avuto la fortuna di imbattermici qualche mese fa a Parigi ed è stata una delle cose più interessanti viste ultimamente. Ammetto di essere andato spinto esclusivamente dalla curiosità e dalla grande attrazione che ho verso Lynch come personaggio, prima ancora che come artista, senza dunque aspettarmi chissà quali meraviglie a livello artistico. E invece. Invece la mostra è un trip incredibile.
L'esposizione nasce dall’accumulo di quadri, cartelle etichettate che contengono quantità di disegni, scatole d’archivio piene di fotografie presenti nello studio di David Lynch, il tutto riunito in un allestimento ideato da Lynch stesso. I dipinti (enormi, ipnotici, realizzati con l'inserimento di elementi e oggetti real), le fotografie e i disegni di Lynch evocano le sue esperienze d’infanzia, i fantasmi dell’adolescenza, le sue preoccupazioni di adulto.
Il tema ricorrente della casa, con le sue risonanze inquietanti, appare in quadri scuri dalle superfici organiche e dai messaggi misteriosi. Il sense of humor irriverente del regista è presente sia nei suoi dipinti più seri (con l'assurdo e inquietante personaggio Bob), sia nel momento in cui apporta una risata salvifica ai suoi film più sconcertanti.
Anche il sottofondo sonoro (cangiante, volendo, per opera dello spettatore) riflette perfettamente l'atmosfera della mostra, insinuandosi lentamente tra noi e le opere; un borbottio elettronico misterioso e piuttosto inquietante che sembra sempre sull'orlo di trasformarsi in un maelstrom furioso.
Questa cosa è assolutamente da vedere. Assolutamente.

lunedì 19 novembre 2007

compreresti un'auto usata da quest'uomo?


"Sono a favore del referendum ma non firmo"
"Berlusconi ha fatto anche cose buone"
"Vorrei nel mio team Beppe Pisanu, la Prestigiacomo e la Moratti"
"Stimo Ronald Reagan"
"Mi piace molto Sarkozy"

Vai così Walter...

giovedì 15 novembre 2007

Ubu quoi?


Ho sempre seguito e molto apprezzato il lavoro del Teatro delle Albe, che non solo non ha praticamente mai sbagliato uno spettacolo ma ha anche radicato, in oltre vent’anni di attività, la “malattia” teatro talmente in profondità a Ravenna da trasformare la città in un esempio unico di proliferazione di compagnie, di educazione teatrale in senso molto lato verso una bella fetta di cittadinanza (e soprattutto verso gli studenti delle scuole) e di (ultimamente) efficace crossover culturale. Dalla non-scuola delle Albe sono usciti negli anni ottimi attori e registi, ora sul palco insieme a Marco Martinelli o impegnati in progetti personali. Proprio il coinvolgimento dei giovanissimi è stato alla base di molte produzioni delle Albe, dalla prima splendida versione dei Polacchi, alla Canzone, fino a quel capolavoro che è Sterminio. Un plauso è dunque doveroso. Ma anche il meccanismo più rodato e vincente può alla lunga risultare fallibile. Con il nuovo Ubu Buur Martinelli intendeva fondere la formula della non-scuola – spettacoli non pensati per adolescenti ma da adolescenti – alla rivisitazione dell’Ubu Roi di Jarry con nuovi cori di palotini (come fatto a Chicago con un gruppo di afro-americani o, volendo, con il progetto Scampia). Per quanto però il coinvolgimento del nuovo gruppo di palotini senegalesi sia lodevole sotto mille aspetti (il fatto di essere andati a tenere il laboratorio direttamente nel loro villaggio, l’aver portato i ragazzi in tournée in Europa, la fratellanza universale, eccetera eccetera) tuttavia questo non toglie che Ubu Buur – comunque osannato dalla stampa – fatichi molto a convincere come spettacolo. Il ritmo – tenuto alto dai soliti Ermanna Montanari e Mandiaye N’Diaye e dall’ormai consacrato Robi Magnani – ha dei continui cali di tensione, in gran parte dovuti alla impossibilità di integrare il nuovo coro allo svolgimento drammaturgico, che, se nei primi Polacchi traeva la sua forza proprio dal giovane gruppo di palotini, qui appare completamente frammentato, come una serie di gag intervallate forzosamente dagli interventi del coro. L’impressione insomma è quella di stonatura, di un’eccessiva indulgenza da parte della regia verso i rischi di sincretismo che questo Ubu, più degli altri, correva. E’ vero che quello di Jarry è uno dei testi più simbolici, universali e slegati da qualsivoglia contesto che si possano affrontare, ma, molto semplicemente, è anche vero che il gioco della personalizzazione totale a volte possa non funzionare.

domenica 11 novembre 2007

rabbia


Non era facile per Chuck Palahniuk scrivere un libro più bello di quelli che ha già scritto. Ma il nuovo Rabbia - Biografia orale di Buster Casey supera in scioltezza i fantasmi di Fight Club e Soffocare, diventando la sua opera più coinvolgente e complessa, la più contagiosa e subdolamente disturbante. La forma in cui è scritto è una novità (per Palahniuk, certo), ossia la ricostruzione della storia del protagonista, l'anti-eroe Rant Casey, tramite una serie di testimonianze, di ricordi, di interviste trascritte. Ma è soprattutto per la trama, per i temi, che Rabbia si stacca dal passato, mescolando bizzarrie, situazioni scabrose e atmosfere paradossali care al vecchio Chuck con inedite incursioni nei territori della fantascienza e della fisica quantistica. La sorpresa è che proprio questi excursus - soprattutto quelli, molto affascinanti, sulle teorie del tempo come dimensione bi-direzionale - sono splendidamente riusciti, dopo le migliaia di pagine ormai stra-lette sullo stesso tema. Pur non perdendo un grammo della sua cattiveria, Palahniuk dà forma a una storia molto più strutturata che in passato, più "logica" (base, crescendo, colpi di scena, finale...), calandoci poco per volta e inesorabilmente in un mondo agghiacciante ma, come sempre, non molto lontano dalla realtà.
Solo un altro scrittore univa così magistralmente fantascienza e cinismo riferendosi comunque, tra le righe, sempre al presente, e sembrava che come lui non ne arrivassero più.
Si chiamava Kurt Vonnegut. Se n'è andato in aprile di quest'anno. Forse sapendo di aver lasciato la sua lezione in buone mani.