domenica 28 dicembre 2008

Ascolti 08


Siccome è impossibile sottrarsi al giochino della classifica di fine anno, eccola qua, a cuor leggero

N. 10 - Bachi da Pietra -
Tarlo terzo

Il terzo disco di Giovanni Succi e Bruno Dorella ribadisce ulteriormente quanto questo sodale sia una delle cose più belle accadute all'underground italico degli ultimi dieci anni. Bruno alle pelli e Giovanni che scrive, canta e suona la chitarra. Un'atmosfera nerissima e testi da incidere a fuoco nella memoria. "c'è un prezzo che ci compra e una morale che ci assolve pronta...". Migliore uscita italiana in assoluto, e non a caso arriva la produzione di Bronson, che per certe cose l'intuito ce l'ha...

N. 9 - Fennesz - Black Sea

Il più bel disco di Christian Fennesz a tutt'oggi esce quasi fuori tempo massimo per l'inclusione nel meglio del 2008. La bellezza algida di "Endless summer" e "Venice" acquista interiorità e il mare nero lascia fluire tutta la sua essenza più onirica ed eterea

N. 8 - Wovenhand - Ten Stones

Il misticismo e l'oscurità senza fine di Mosaic si fanno qui elettricità, energia. David Eugene Edwards non assolve nessuno e quasi quasi ti verrebbe anche a te da crederci, nel suo dio. E se in passato Wovenhand ti ammaliava in una spirale visioni ultraterrene, ora è difficile non farsi travolgere. Difficile e sbagliato

N. 7 - Marianne Faithfull - Easy come easy go

Tra un cameo di Nick Cave e uno di Cat Power, un vocalizzo di Antony e uno di Rufus Wainwright, un controcanto di Sean Lennon e uno di Jarvis Cocker (e gli apporti strumentali di Keith Richards, Marc Ribot, Jim White, Warren Ellis), qui non si poteva sbagliare. “Easy come easy go” è un disco tributo – la specialità della Faithfull – alle icone del rock’n’roll esistenzialista e a tutta la migliore american music, il jazz e il musical, il folk e il blues, il country e il rock del 2000

N. 6 - The Black Angels - Directions to see a Ghost
Era da un bel po' che non si sentiva un sitar così. In quanto a psichedelia i Black Angels se la cavano meglio di chiunque altro fin dallo scioglimento degli Spacemen 3 – ascoltiamo l’oscura e ieratica "Science Killer" e i sedici minuti della conclusiva "Snake in the Grass" – e sono anche in grado di ravvivare la propria pesantezza con una conoscenza funzionale degli agganci pop e di come utilizzarli

N. 5 - Calexico - Carried to dust

John Convertino e Joey Burns fanno più o meno lo stesso disco da dieci anni ma se ti piace il suono del west, del meticciato, delle atmosfere à la Morricone, di qui ci devi passare per forza. E col tempo il tutto è sempre meglio. In "Carried to dust" c'è poi "Two silver trees", che è il più bel singolo dell'anno

N. 4 - Aufgehoben - Khora

Ancora Holy Mountain per gli eccezionali Aufgehoben e il loro strepitoso quinto album. Il loro cattivissimo power noise rock è ostile come delle bestie feroci meccaniche ingabbiate a forza tramite livelli di distorsione, percussioni pietrose e un ampio spettro di sovratoni prodotti dalla corde della chitarra graffiate e scorticate. Un suono che, pur decisamente ostico, sotto la scorza grezza si rivela ascolto dopo ascolto molto finemente modulato e mai fine a se stesso, evolvendosi peraltro fortemente nel corso degli anni. Dimostrazione ne è appunto “Khora”. Se il precedente “Messidor” sembrava aver allentato leggermente la morsa corrosiva della band, il quinto disco la ricompatta. Percussivo e anarchico, “Khora” si libera di qualsivoglia schema e forma rock per farne un’ascia bipenne con cui sfrondare i nostri nervi.

N. 3 - Portishead - Third

A dieci anni dal loro ultimo lavoro (tra l'altro un live), Beth Gibbons e soci sgombrano ovviamente il campo da Bristol sound, trip-hop e quant'altro per un disco sbalorditivo che recupera in pieno il loro fulgore ma da prospettive totalmente inaspettate.
Tornano allora prepotentemente in risalto l'elettronica (ma questa è un'altra roba), l'accavallamento e l'intersezione stilistica, e il ricorso a sonorità di ogni risma (ricavate persino da un tenue banjo all'interno di Deep Water), ma sono soprattutto le virtù vocali della Gibbons ad esaltare un album che non è in nessun modo catalogabile come un succedaneo dei primi due.

N. 2 - T Bone Burnett - Tooth of crime
Come spiega magistralmente Mr. Crown nei suoi Crownicles, questo disco ha la dote rara di evocare visioni, e non è un caso.
L'album è infatti l'ultimo frutto della lunga collaborazione di T Bone con il drammaturgo Sam Shepard, che scrisse inizialmente la commedia "Tooth of crime" nel 1972, ambientandone però l'azione in un'epoca molto simile a quella attuale. Le canzoni ispirate ad essa sono venute fuori come infrangendo uno specchio, mille pezzi con mille sfaccettature diverse, diventando un distillato di conflitti moderni e di drammi personali, con arrangiamenti che sono immaginativi ed inventivi, ed esecuzioni che sono capolavori in serie.

N. 1 - Fuck Buttons - Street Horrrsing

Loro sono in due (Andrew Hung e Benjamin John Power), sono inglesi, si chiamano Fuck Buttons e il loro primo album, il più bello del 2008, è un insieme di strati e sovraincisioni elettroniche rumoriste. Un disco fisico e crudo, 50 minuti impegnativi, sei lunghi pezzi in costante disequilibrio tra strutture spigolose e la morbidezza di alcuni frammenti di melodia disseminati tra le pieghe di una logica pop completamente ribaltata. Grida, voci snaturate e sature di effetti, nessuna chitarra, drone ossessivi e maltrattati. Un maelstrom di elettronica impazzita nel fondo del quale una pura, cristallina bellezza ti guarda dritto negli occhi. Meraviglioso.

Da questa scelta sono rimasti esclusi molto a malincuore Ascend, B. Eno & D. Byrne, Metallica, Boduf Songs, Vic Chesnutt & Elf Power, Notwist, Prurient, Larkin Grimm

martedì 18 novembre 2008

bye bye dickhead


Bush verrà ricordato nei libri di storia come il peggior presidente degli ultimi 200 anni. La responsabilità di quanto sta accadendo nel mondo economico ricade interamente su di lui e sui suoi otto anni di deregulation esasperate e selvagge. E ora probabilmente è tardi per cercare rimedio, perchè sono davvero poche le differenze tra la grande depressione del '29 negli Usa e questa, il percorso è esattamente lo stesso: una ricetta perversa di avidità, indebitamento, speculazione, laissez-faire, e soprattutto un'infinita incoscienza. Ora come allora l'America porterà la croce di aver trascinato nella crisi il mondo intero. Patetico poi il piano di intervento dell'amministrazione Bush (in realtà poi della Fed) prima delle elezioni, dopo aver avallato negli anni ogni tipo di appropriazione, debita e indebita; fortuna che almeno gli elettori hanno avuto il buon senso di eleggere l'unico personaggio forse in grado di gestire la situazione con un minimo di cognizione di causa. Welcome Barack, go to hell George W.

venerdì 6 giugno 2008

Crete Goat Festival 2008


Dopo qualche indiscrezione trapelata qua e là, è stato finalmente reso noto il programma della ventiduesima edizione del Crete Goat Festival, che si terrà come sempre nell’incredibile scenario naturale delle grotte di Haghios Nicholaos, sulla costa occidentale di Creta, dall’1 al 3 agosto 2008. Caratteristica del festival creato nel 1987 dall’eclettica mente di Georghiu Psoryasys (lo ricordiamo suonatore di cetra con Nick Cave) è l’assoluta, totale assenza di elettricità, che “costringe” tutti i gruppi a suonare rigorosamente unplugged, sfruttando però la sensazionale acustica delle grotte, una cassa di risonanza naturale davvero stupefacente. Si è già appresa la notizia della presenza (il 2) del grande Alexandros Katiakos – e questo basterebbe le dracme del biglietto per l’intero festival – ma ancor più allettante è la conferma ormai ufficiale della reunion in occasione del CGF 08 degli Ouzoss in formazione originale, cioè con anche il chitarrista Kanello Kanellopoulos, fresco di scarcerazione dopo i vent’anni assegnatigli ingiustamente per l’omicidio dei suoi vicini di casa (ma sull’oscura vicenda si sono già spese anche troppe parole. Kanellopoulos era innocente. Punto). La band guidata da Scotty Tatrakis – come impone la moda di questi ultimi anni – eseguirà completamente lo storico album del 1988 “Mpff gmar oh god”, con ogni pezzo cantato da Tatrakis mentre ingolla bocconi di pita bifteki, e nella versione “lunga” di quasi 14 ore, concepita ed eseguita una sola altra volta dal vivo proprio in occasione del CGF 92. Tra l’altro, da quel che ho inteso dalle scarne note stampa, la vera particolarità dell’esibizione non è tanto l’assurda durata quanto il fatto che durante il live set la grotta Kteuson, per l’alternarsi delle maree, sarà ad un certo punto quasi completamente allagata, lasciando, pare, ai cinque della band pochi centimetri di spazio vitale. A completare i ranghi delle band di area ellenica, i rodiensi Friends of Jerry Lewisakis, recentemente di supporto agli Smegma nel loro mini-tour nei Balcani, e l’unico gruppo cretese degno di nota (ad esclusione naturalmente della Psarandonys Family), i Carrots Are Not That Good, di cui la Neurot ha a sorpresa pubblicato uno split con i Battle of Mice.
Tra le star internazionali del festival da segnalare invece la svedese El Perro del Mar, Henry Rollins (con l’adatissimo show “Spoken Word”), i Black Keys in versione gregoriana, Leonard Cohen, Tom Waits, Neil Young, Bob Dylan e i Neurosis. Il programma completo si trova comunque su www.goatfest.com Tra gli highlight del 2007: i Wolf Eyes che dividono il pubblico con la loro sillabazione tramite rutti di Zorba il Greco, per alcuni pura iconoclastia punk, per altri irriguardevole ciofeca. Poi la performance degli Einsturzende Neubauten, impegnati per 50 minuti con la sola esecuzione di “Silence is sexy”; Steve Von Till, con l’esecuzione solo voce e sciabordio d’acqua su pietra. E la reunion degli Sleep, che per due ore e quaranta suonano una campana tibetana ripetendo all’infinito “Psarandonys is my master”.

martedì 27 maggio 2008

atp 08 explosions in the sky


L’All Tomorrow’s Parties (ATP) è un festival che si tiene un paio di volte all’anno in Inghilterra, di solito a Minehead, piccola cittadina del Somerset di fronte al Galles (dove è per altro facilissimo finire per sbaglio tramite il ponte più lungo del mondo, quando si guida da ore sul lato sbagliato della strada e le rotonde si rivelano sempre più piene di insidie. Ma questa è un’altra storia). Ma più che Minehead è il Butlins di Minehead (un incrocio agghiacciante tra un Valtur e una Mirabilandia scrausa) ad ospitare l’Atp, in virtù della sua sterminata capienza. La caratteristica più interessante di questo festival è comunque il fatto che ogni edizione è curata da un direttore artistico diverso (un gruppo o un artista) che naturalmente finisce per darne un’impronta stilistica ben precisa. Quello che ho visto a metà maggio, ad esempio, era organizzato dagli Explosions in the Sky e di conseguenza ecco un sacco di band Temporary Residence (Mono, The Drift, Eluvium, Lazarus, Envy), oltre a gruppi dal sound simil-Explosionesco quali By the trail of Dead, Battles, Stars of the Lid, ecc. Ma tante – per fortuna – anche le derive in ogni direzione, dai The National agli Iron and Wine, da Ghostface Killah (!) a Jens Lekman, Animal Collective o Broken Social Scene. A parte l’organizzazione un po’ clownesca (tipo far suonare i Battles – la band più hype del pianeta in questo momento – nel palco più piccolo, lasciando fuori metà della gente) l’Atp ha mantenuto le aspettative, con il sontuoso live dei Polvo (la miglior band degli anni ’90, riformatasi a sorpresa), dei commoventi Dinosaur Jr in formazione originale Mascis-Barlow in grado di spazzare via chiunque, un rarissimo live dei Silver Jews (il 59° concerto in 17 anni di attività), gli stessi Explosions a dimostrare – come del resto i fantastici Mono – quanto anche una band solo strumentale possa magnificamente tenere il palco. Ma la sorpresa del festival è stata senza dubbio Phosphorescent, all’anagrafe Matthew Houck, sorta di Will Oldham anfetaminico in possesso di voce da panico e numeri da grande. Ne sentiremo parlare presto.

venerdì 11 aprile 2008

the joke


Finalmente, qualche sera fa al Lumiere di Bologna, ho avuto la fortuna di assistere all'incredibile "film" La beffa (The Joke), di Mactan Latrodectus, di cui tanto si è detto e letto, soprattutto in internet. Quest'opera muta in bianco e nero del vincitore del Sundance 2007 (sezione "New faces for the new millennium") usa il pubblico "come cast riflesso" ed è una parodia degli "eventi specifici del pubblico" di Hollis Frampton. In pratica due videocamere riprendono nella sala il pubblico del "film" e proiettano sullo schermo le immagini risultanti, ossia il pubblico della sala che guarda se stesso guardare se stesso mentre comprende "la beffa" e si mostra sempre più imbarazzato e a disagio e ostile, comprendendo di far parte dell'involuto flusso "antinarrativo" del film. La durata del tutto è, ovviamente, imprevedibile - nel mio caso una quarantina di minuti prima che tutti se ne andassero - e l'operazione (credo) vada presa come il titolo suggerisce. La Film & Kartridge Kultcher di Sperber ha comunque affermato che The Joke "suona inconsapevolmente la campana a morto del cinema postpoststrutturale in termini di puro fastidio". Se vi capita...

mercoledì 2 aprile 2008

sconcerto


“Dorothy. Sconcerto per Oz”, il nuovo lavoro di Fanny & Alexander (l’uso del termine “spettacolo” sarebbe puramente simbolico), porta la drammaturgia di Luigi de Angelis e Chiara Lagani a un punto di non ritorno, a una ridefinizione degli assetti teatrali realmente sconcertante con la quale occorrerà fare i conti da ora in poi. In un teatro trasformato in una sorta di luogo di rifugio da un metaforico ciclone Dorothy, gli spettatori si trovano però presto coinvolti in un altro ciclone, interno, proprio lì dove dovrebbero essere al sicuro, un ciclone che lentamente ma inesorabilmente sconvolge la morfologia del codice “platea-palcoscenico” in tutti i modi possibili. Con un deragliante effetto domino le figure delle tre streghe del Mago di Oz invocate da un bizzarro direttore d’orchestra – dalle inquietanti ma assurde fattezze hitleriane – si diffraggono su altrettante attrici impegnate nell’interpretazione di personaggi femminili landolfiani, ai quali per sinestesia si associano i “colori” di tre soprano e ancora di tre musiciste, tutte impegnate nel loro personale, scollegato, compito interpretativo. Tutto ciò potrebbe sembrare d’acchito un caos totale, ma in realtà il disordine è organizzato nei minimi dettagli, secondo i concetti di casualità e silenzio di John Cage, le cui “Europeras” sono di Dorothy una delle linee guida. E’ anzi evidente che a ben guardare il groviglio espressivo messo in atto è spesso lucidamente allineato in sottotrame perfettamente comprensibili, per cogliere le quali De Angelis e Lagani chiedono però uno sforzo in più, un’attenzione diversa dal solito, un contratto fatale tra opera e spettatore. Avanzando lungo quelle che sembrano traiettorie espressive – drammaturgiche, musicali, vocali – completamente anarchiche, sempre in bilico tra la situazione reale del disastro e quella fantastica di Oz, in uno spazio che non ha più confini canonici – parte del pubblico è alloggiata sul palcoscenico su dei lettini d’emergenza, insieme ad alcune delle interpreti –, lo (s)concerto per Oz assume sempre più i tratti di un linguaggio artistico inedito, di un meccanismo creativo del tutto nuovo, in grado di far scaturire quell’incomprensibile ma contagiosa energia che solo i rivolgimenti epocali celano in sé. Fino alla rivelazione conclusiva che l’intenzione di tutto ciò, forse, è proprio il non avere alcuna intenzione. Dorothy non è una irreversibile negazione del teatro, piuttosto uno degli atti d’amore più grande verso di esso mai realizzati.

giovedì 20 marzo 2008

vote or die?


Ieri sera ho rivisto una geniale puntata di South Park che mi ha ovviamente chiarito definitivamente le idee sul cosa fare alle prossime elezioni italiche: io non voterò.
Nel geniale episodio alcuni animalisti proibiscono alle elementari di South Park di utilizzare una mucca come mascotte della scuola. I bambini sono allora invitati a proporre e votare la nuova mascotte, ma per uno scherzo di Cartman e Kyle la scelta finale sarà tra un panino alla merda o una peretta gigante. Proprio per questo motivo Stan si rifiuta di votare, visto che per lui sono entrambe orrende, ma il suo rifiuto di avvalersi di "uno dei principi cardine della democrazia" gli costerà l'esilio dalla città.
E qui sta proprio il punto della situazione politica italiana: votare per Berlusconi o Veltroni è come scegliere tra un panino alla merda e una peretta gigante. Negli ultimi anni di vomitevole panorama politico ho sempre reisistito al fortissimo impulso di mandare tutti a fare in culo solo perchè all'ultimo vinceva sempre la considerazione che uno schiaffazzo in piena faccia (il centrosinistra) è pur sempre meglio di un calcio nelle palle (la vittoria del centrodestra), ma adesso basta.
Il fatto poi che il voto sia "un diritto ma anche un dovere" non ha per me più alcun valore; un diritto ci può anche stare (sebbene sia convinto che molti dovrebbero conquistarselo, questo diritto) ma un dovere proprio no (lo sarebbe se chi viene eletto di volta in volta facesse il suo, di dovere). E considerato anche che non ritengo affatto la democrazia come la miglior forma possibile di governo, io quest'anno il 13 e 14 aprile me ne vado a pescare.
Ora mi sento meglio.

lunedì 3 marzo 2008

no country for old men


Il nuovo film dei fratelli Coen è un'opera perfetta, in cui tutto - cast, sceneggiatura, fotografia, luci, soundtrack, regia ovviamente - si fonde dentro una storia (tratta dal premio Pulitzer Cormac McCarthy) strepitosa, sghemba, sorprendente, tesa a superare la visione di un West degli Stati Uniti come miticamente violento per mostrarne invece l'aspetto realmente violento. Ma ai Coen non interessa una cinica e compiaciuta presa d'atto di una realtà innegabile. L'iperbole è la cifra stilistica di "Non è un paese per vecchi" ma i due registi non si fermano alla coreografia raffinata della violenza. Non si accontentano di ironizzare. Non gli basta mostrare quanto sono bravi a suscitare il riso dinanzi a un brutale assassinio. Non è questo il loro scopo. Ciò che per loro conta è riuscire a mettere in rilievo anche solo una scintilla di umanità in un mondo che sembra governato dalla follia. Ed ecco allora il personaggio del cauto, quasi pavido sceriffo interpretato da un grande Tommy Lee Jones (che ormai potrebbe venire candidato all'Oscar anche se lo filmano in fila alle poste), un uomo la cui normalità detta gli equilibri nello scontro con la geniale malvagità dello psicopatico Chigurh/Bardem.
Il film, uno dei più belli degli ultimi dieci, quindici anni, è destinato a divenire un classico di tutti i tempi. Ma non ricordo un'opera dei Coen che non lo sia.

giovedì 28 febbraio 2008

Un pacco. Ma tirato con classe


E bravo Burial. Al quale si può dire tutto tranne che non abbia un formidabile tempismo. Il pischello londinese imbrocca l'album di debutto alla grande (titolo omonimo) nel 2006 riuscendo a infondere nuova linfa vitale a un genere - chiamiamolo "dub-trip-hop" - che da tempo non aveva più alcunché da dire, e questo grazie a un'atmosfera scurissima e a dei suoni effettivamente accattivanti, ipnotici, intelligenti, insomma ben fatti. Nessuno se ne rende conto tranne, pare, Wire, che lo elegge addirittura disco dell'anno. Bene, approfittiamone allora, e vai col secondo album pompato da cotal biglietto da visita. Solo che come si fa a evolvere da un suono che già miracolosamente l'aveva sfangata dalla banalità in prima battuta? E infatti. "Untrue" esce verso la fine del 2007 atteso da tutti come un evento e poi giudicato da tutti come un capolavoro. Ma il disco è pessimo. E' una copia slavata dell'altro (alcuni pezzi sono simili in modo direi imbarazzante...), nessuna nuova idea se non quella di cavalcare l'onda del successo e di raffinare ulteriormente i suoni in vista di un'apertura sempre più commerciale. Un disco inutile, che anzi alla lunga irrita, con quei passaggi sempre uguali, quelle voci in sottofondo strasentite, i campionamenti triti. Però io ci sono cascato e l'ho comprato a scatola chiusa. Anzi, a pacco chiuso.

sabato 23 febbraio 2008

lo scherzo infinito


Dopo oltre tre mesi ho terminato la lettura di Infinite Jest, le 1279 pagine con cui David Foster Wallace lascia una traccia indelebile nella letteratura mondiale. Infinite Jest (scherzo infinito) è un capolavoro sotto molti aspetti, ma prima di tutto è un'opera che andrebbe affrontata di petto, con foga, senza farsi spaventare dalla mole (tra l'altro il testo è anche in un corpo minuscolo) e dai tanti interludi apparentemente slegati dalla trama, come invece ho fatto io, che ho intramezzato la lettura ad altre cose e ho addirittura saltato dei passaggi, finendo per dover tornare indietro per ripescare dettagli che si sono poi rivelati fondamentali. La trama è semplice e allettante: nel futuro non troppo remoto di un'America agghiacciante la merce, la pubblicità e l'intrattenimento hanno occupato ogni interstizio della vita quotidiana (tanto che anche gli anni non procedono più in ordine cronologico ma con nomi di sponsorizzazioni, tipo "l'anno del Pannolone per Adulti Depend" o Apad), mentre le droghe di ogni genere sono diffuse ovunque, come una panacea alla noia e alla disperazione. E' a questo punto che irrompe sul mercato un film misterioso, "Infinite Jest" appunto, così appassionante e ipnotico da cancellare immediatamente ogni desiderio se non quello di guardare le immagini all'infinito, fino alla morte. Attorno al film si scatena una caccia grottesca dei serivizi segreti americani e di un gruppo di assurdi separatisti quebechiani, tutti su sedia a rotelle, e la caccia porta verso la Enfield Tennis Academy di Boston e la Ennet House, sempre di Boston, un ricovero per recupero di tossici all'ultimo stadio. Questo perchè poco per volta si scopre che quasi sicuramente l'autore del film letale è il fondatore dell'ETA, James Orin Incandenza, diventato in tarda età un regista di culto e poi suicidatosi in maniera incredibile (ma all'ETA ci sono ancora la moglie di lui, Avril, che ne è la direttrice, e due dei figli, Mario, un handicappato che ne era assitente personale, e Hal, giovane promessa del tennis continentale) e che alcune figure chiave dei suoi film sono ospiti del centro di recupero. In questo contesto Wallace inserisce una pletora di sub-personaggi spettacolari, le cui storie sono dei veri e propri romanzi nel romanzo, racconta per filo e per segno le trame di tutti i film di Incandenza Sr. (e se qualcuno si provasse davvero a girarne alcuni ci sarebbero delle sorprese...), spiega come parte del Canada e alcuni stati Usa siano diventati delle enormi discariche in cui gli Usa sparano tutti i loro rifiuti tramite catapulte, fa nascere l'Eschaton, un gioco di simulazione pazzesco che fanno i ragazzi dell'ETA, e così via, anche tramite le 388 note ed errata corrige che sono semplicemente geniali. Il tutto per arrivare a una fine spiazzante che mi ha lasciato a bocca aperta e, ora, con un senso orrendo di abbandono. DFW ha poi una proprietà di linguaggio totale e una conoscenza profondissima delle parole, che usa sempre in modo calibratissimo, ricorrendo anche a splendidi (e misteriosi) neologismi; tutto così suona sempre ironico, poco serio, proprio perchè raccontato con un eloquio forbitissimo e a tratti scientifico. Espressioni come "morire per soffocamento, mucoidale o no, non è proprio come andare alla Festa dei tulipani di Montreal" o, parlando di uso di droghe da parte di un cestista, "per diverse ore dopo il ragazzo soffriva di una perdita di propriocezione così vertiginosa da non riuscire letteralmente più a riconscersi il culo dal gomito, lasciamo perdere fare mosse autoritarie verso canestro" finiscono ogni volta per trasformare la situazione anche più pesante e tragica in uno scherzo infinito, e la lunghezza dell'opera contribuisce a creare proprio una sorta di dipendenza del lettore verso questo clima sarcastico che vorresti continuare a leggere all'infinito. Senza parlare delle innumerevoli digressioni che, è vero, il più delle volte non c'entrano assolutamente nulla nell'economia della trama, ma che vorresti non finissero mai. Un esempio su tutti: ad un certo punto, parlando di giovanissimi tennisti che sbroccano per il succeso, Wallace si inventa la storia di questo ragazzino californiano che dopo l'ultimo successo arriva a casa di notte e si suicida bevendosi un bicchiere di Nesquik corretto con del cianuro di sodio. Ma ecco che si sveglia il padre, lo trova schiumante e con la faccia blu e si getta a fargli la respirazione bocca a bocca, avvelenandosi a sua volta e morendo, e così la moglie, che trova il marito e gli pratica la respirazione, e così via tutti gli altri 6 fratelli "che hanno tutti fatto un corso di Pronto Soccorso di quattro ore sponsorizzato dal Rotary alla Ymca di Fresno".
Questo libro è imprescindibile, qualcuno lo legga, vi prego, ho bisogno di parlarne!!

mercoledì 13 febbraio 2008

bring the noise


Ho ripreso in mano un vecchio vinile oggi. I Public Enemy. Che nel 1988 arrivano alla perfezione con questo disco, It takes a nation of millions to hold us back, un classico della canzone di protesta americana e gemma fulgida nella storia dell’hip hop. E’ nel 1983 che Chuck D (aka Carlton Ridenhour; la D sta per Dangerous), storico rapper newyorchese, incontra Hank Shocklee e Bill Stephney, con i quali registra il brano Public Enemy No. 1, ispirato al titolo di un brano di James Brown. Il pezzo inizia a girare nelle radio del circuito dei college, e nel frattempo alla posse si unisce William Drayton (ovvero Flavor Flav). Il co-fondatore e produttore della Def Jam Records, Rick Rubin, ascolta il brano e ne resta completamente ammaliato. Chuck D viene allora preso sotto l'ala protettiva della label e forma un gruppo con il dj Terminator X, Professor Grimm (il “Ministro dell’informazione” del gruppo), il team di produzione Bomb Squad (tra cui Shocklee) e la Security of the First World (colorita squadra di guardie del corpo). Nel 1987 la formazione così composta pubblica Yo! Bum Rush the Show, album di debutto caratterizzato da strumentali semplici e scandite, e rime dense di figure retoriche e politica, cercando di realizzare il sogno dello stesso Chuck D, cioè un gruppo che vendesse, ma che fosse rispettato nell'underground, e che potesse dire la propria a livello politico. Il disco si rivela uno dei più intensi, underground e innovativi lavori hip hop del decennio, ma niente di eccezionale rispetto al suo monumentale seguito.
It takes a nation… è un album senza precedenti che riscrive le regole di ciò che il rap poteva fare, riconfigurando i suoi elementi in un suono emozionante, moderno, fresco. I Public Enemy fanno loro l’idea dei Run-D.M.C. che un gruppo rap potesse avere la stessa carica di una rock band, portando nelle loro tracce sonorità free jazz, hard funk e hardcore creando un flusso di parole e beat micidiale mai sentito prima. Con basi potentissime, perfette per il flow tumultuoso e ironico di Flav e Chuck, il disco si costruisce la nomea di rivoluzionario e lo stesso Chuck considera il proprio rap come “The Black CNN”, in quanto informa in tempo reale cosa succede nel ghetto. E immediato è anche l’interesse nei confronti del gruppo da parte del mondo rock, che trova in pezzi bellicosi come Bring the noise, Don’t believe the hype e She watch Channel Zero?! lo spirito che fu di MC5 e Dead Kennedys. La crescita nei testi di Chuck D è impressionante, con una forza realmente rivoluzionaria, una visione chiara della situazione sociopolitica ed un vocabolario senza limiti che si fondono in argomenti logici e galvanizzanti, inattaccabili. E il contrasto del corrosivo sarcasmo del folletto Flavor Flav non fa che rafforzare il tutto. Un disco tuttora insuperato.

giovedì 7 febbraio 2008

niente di nuovo sotto il sole (italiano)


Come spiega benissimo (tanto per cambiare) Curzio Maltese, la vera entrata a gamba tesa per porre fine alla partita di Prodi l'ha data (ma guarda un po') l'ignobile vaticano, le cui gerarchie erano da tempo scese in campo direttamente contro il centrosinistra e per favorire il ritorno del nano pelato, elargitore di mille favori alla chiesa durante il suo governo. La gamba tesa era partita da lontano. Dalla primavera 2006 non c'è stato un attimo in cui Ratz o vescovi vari non abbiano avuto da dire contro l'azione del governo, ma nell'ultima settimana prima della caduta si è consumato l'attacco più spettacolare, su più fronti. Comincia Benny x12, in qualità di vescovo de Roma, con l'aggressione al Veltroni sindaco sul "degrado di Roma". Ora, è chiaro che l'uno è anche papa e l'altro, toh, anche leader del PD. Quanto alla predica di Ratz sui mali de Roma, dagli affitti troppo alti allo scarso attivismo dell'amministrazione locale, bisognerebbe ricordare però che l'Apsa, che gestisce le proprietà ecclesiastiche, è il primo immobiliarista della capitale, con il 22% del patrimonio totale della città: non può fare nulla per calmierare gli affitti? La chiesa è il primo evasore (legalizzato) delle tasse romane, con la ributtante e assurda esenzione dall'Ici, così come è il primo beneficiario delle onerose convenzioni private su sanità e scuola. L'elenco degli ignobili favori che Roma paga alla chiesa è infinito.
Ed ecco l'altro colpo di genio, il ben studiato pretesto della mancata visita alla Sapienza, dove si è capito chiaramente che all'insopportabile Chiesa non interessava affatto la questione in sè ma lo sfruttamento del caso. La ridicola polemica sulla sicurezza non garantita era strumentale. I predecessori di Benny x12 sono andati in visita in paesi del terzo mondo e hanno incontrato folle di milioni di persone, e questo cazzo di papa ha paura di entrare all'università di Roma? Bisognava trovare il modo di organizzare una manifestazione contro il governo a San Pietro, senza dire che si trattava di politica. Così è andata, e nella folla di San Pietro c'era in prima fila Mastella porco, il quale proprio in quell'occasione, per sua ammissione, decide l'uscita dalla maggioranza e la comunica subito non a Prodi ma al cardinal Bertone. Nello sfascio della politica, la chiesa ha deciso di scendere in campo, alla riconquista di un ruolo centrale perso dal tramonto della Dc. I cosiddetti leader del cosiddetto centrosx dovrebbero almeno prenderne atto e studiare qualche contromossa che non sia il solito genuflettersi nella vana speranza di ammansire i vescovi. Ho mal di stomaco. Fine.

mercoledì 30 gennaio 2008

due


Ad intervalli regolari non posso fare a meno di ascoltare e rimanere (ogni volta) incantato dall’album “2”, dei Black Heart Procession, disco che ho amato fin da subito (forse anche perché legato al meraviglioso periodo della mia vita in cui stavo con la cugina di Diego, che come tutti sanno è la ragazza più bella del mondo). Nati nel 1998 da una costola dei californiani Three Mile Pilot (nella fattispecie il cantante Pall Jankins e il tastierista/polistrumentista Tobias Nathaniel), i BHP arrivano nel 1999 a questo “2” (su Touch and Go) dopo il buon esordio omonimo. Immaginiamo una scala di marmo nero che si arrampica verso un tempio esoterico chiuso da un cancello arruginito e cigolante. Il cielo attorno a noi è del colore del sangue venato di viola addobbo funebre. La luna è gialla, piena e sospesa bassa all’orizzonte mentre un nugolo di pipistrelli transilvanici ci svolazza sulla testa. Un rumore di quelle che sembrano catene trascinate si sente provenire da quelle che probabilmente sono le segrete del tempio. Ma nonostante tutta l’oscurità e l’inquietudine evocate dobbiamo entrare nel tempio. Lo richiede proprio l’atmosfera che si è creata. Perché se vogliamo riabbracciare l’amore della nostra vita occorre affrontare un terrore inimmaginabile, senza nemmeno avere certezza alcuna. Questo è quanto. E’ chiaro che Jenkins – la cui voce è cresciuta a dismisura dall’album precedente – e Nathaniel sono più che attratti da composizioni malinconiche in cui la parola cuore ritorna in maniera ossessiva, arrangiate con una strumentazione minimale (tra cui la famosa sega suonata con l’archetto). Tutta l’idea di 2 è quella di un lento corteo gonfio di spleen, fedele alla canzone d’autore americana (da Cash a Dylan, a Tim Buckley, a Tom Waits, fino a Smog e ai Calexico). Ma non è il genere, bensì una poetica introspezione, ad amalgamare alla perfezione i vari pezzi del disco, dal marziale e dilatato crescendo di “A light so dim” (sette minuti di lamenti, cigolii e voci dall’inferno. Brividi…) al folk noir di “Young church is red” (una chiesa rossa di sangue, una chitarra, un organo e la voce di Jenkins scandiscono questa ballata di folk spettrale, col ritornello che si chiude con una frustata di chitarra), fino al capolavoro “Blue tears”, ieratica, solenne, da lacrime. I Black Heart Procession riescono in questo lavoro ad articolare la difficoltà di una lotta contro la subdola depressione che un cuore infranto può indurre. E il viaggio termina da dove era iniziato, e cioè con "The Waiter #3", una reprise dell’apertura con un suono leggermente più accentuato e con Jenkins che sembra più stanco, come provato dall'esperienza del dolore. Una scelta che in definitiva evidenzia la caratteristica circolare del disco, facendone quasi un concept sulla delusione e la speranza.

venerdì 25 gennaio 2008

american hardcore


Colui Che Non Sbaglia Mai mi ha regalato da poco il superbo dvd "American hardcore - La storia del punk americano 1980-1986", realizzato da Paul Rachman basandosi sul libro di Steven Blush "American Punk Hardcore". Il film vero e proprio - circa un'ora e quaranta - racconta tramite una messe incredibile di filmati inediti (soprattutto di live) e interviste (vecchie e nuove) ai protagonisti stessi la nascita e l'esplosione irrefrenabile di un movimento inaspettato e del tutto autonomo, "do it yourself", che nel giro di pochi mesi tra la fine del 1979 e l'inizio del 1980 si trasformò, oltre che nel nuovo undeground musicale statunitense, in una durissima forma di protesta sociale contro la presidenza Reagan. Black Flag, Minor Threat, DOA, Murphy's Law, Youth Brigade, Bad Brains, Circle Jerks, Suicidal Tendencies, Agnostic Front, Negative Approach e tutti gli altri gruppi del periodo non sono solo un modo di fare musica, ma un vero stile di vita, una specie di movimento politico a cui si poteva aderire solo buttandocisi dentro totalmente. Reagan voleva riportare gli States agli anni '50 e molti giovani captavano la sua falsità, la detestevano. Sentivano che qualcosa non andava e che il punk rock era la strada per uscirne fuori, il modo per dar vita a una controcultura stridente e assolutamente inaccettabile da qualsiasi forma di mainstream. E il documentario ti fionda proprio nel cuore di questo movimento, attraverso tutti gli Stati Uniti, mostrando le differenze da stato a stato e la stessa incontenibile energia e aggressività. Ci troviamo tutti: Henry Rollins, ovviamente, Dean e Mullin dei COC, Spira dei Wasted Youth, Jimmy Gestapo, gli Adolescents, H.R., gli SSD e avanti così, con un risultato che è un assalto violento di immagini e musica e che cattura lo spirito dei gruppi e di un movimento che manda affanculo i politici, le case discografiche e tutto ciò che intralcia loro il cammino.

"L'ho tenuta imbottigliata dentro per anni, invece di lottare o di piangere. Adesso è tempo di lasciarla uscire, il mio punto d'ebollizione sta per arrivare" - SSD

sabato 19 gennaio 2008

welcome to


Mi meraviglio come nell'iper-reazionaria italietta ci sia ancora la possibilità di vedere su canali tradizionali (Mtv non satellitare) la serie South Park. E ancor più incredibile è che le prime quattro stagioni (seppur ampiamente censurate, doppiate in modo edulcorato, tagliate) siano state trasmesse ad inizio anni 2000 da una rete mediaset. Comunque. South Park è in assoluto il serial più intelligente, divertente, caustico, autoironico, anticonvenzionale, dissacrante e cazzone della storia della tv.
Le origini del cartone risalgono al 1992, quando i suoi creatori Trey Parker e Matt Stone crearono un cortometraggio animato chiamato "Jesus vs. Frosty" in cui appare un primo prototipo dei personaggi principali di South Park e che impressionò un illuminato dirigente della Fox, che nel 1997 mette per la prima volta in onda la serie.
Le provocazioni del cartone costrinsero alle proteste i portavoce di chi riteneva offensivo il programma, e i gadget di South Park (soprattutto le magliette) furono banditi da numerose scuole, dai centri di assistenza per minori, e da altri luoghi pubblici.
Attualmente la serie è giunta alla sua undicesima edizione, subendo una rapida evoluzione verso l'abbandono di temi più ingenui e la focalizzazione su importanti questioni sociali, morali e politiche, pur non rinunciando alla sua impronta naïf che contrasta con gli argomenti formali, affrontati con i temi classici della satira (produzioni del corpo, argomenti tabù). Particolarmente "feconda" sembra la relazione fra South Park e la chiesa cattolica, bersagliata per fortuna senza pietà in più occasioni. Oltre all'esempio di Do the handicapped go to hell? (in cui i ragazzini protagonisti devono confessarsi per la prima volta e viene loro spiegato che dovranno raccontare ad un prete tutti i peccati commessi, pena le fiamme eterne dell'inferno. Ma nel loro gruppetto c'è Timmy, bambino paraplegico che sa solo ripetere il proprio nome, sollevando fra i compagni la preoccupazione che, non potendosi confessare, possa venire ingiustamente condannato all'eterna dannazione) esistono personaggi che richiamano direttamente la fede, a partire da Gesù, ritratto come un abitante qualsiasi di South Park che, con aureola e tonaca bianca, conduce un talk show in cui non sempre riesce a dare delle risposte esaustive sulle grandi domande della religione. In una puntata (Jesus Vs. Satan) si organizza un grottesco match di pugilato fra Gesù e il Diavolo, annunciato da suo figlio Damien. In un'altra puntata (Are You There God? It's Me, Jesus), tutta South Park aspetta l'arrivo di dio, annunciato per un eccesso di "superbia" da Gesù. Così Dio scende sulla terra, mostrandosi agli occhi degli uomini come una creatura bizzarra, un rettile piccolo e mostruoso, ma di una saggezza infinita. Purtroppo le sue risposte saranno vane, dal momento che l'unica domanda che concederà alla popolazione di South Park verrà bruciata in maniera futile (Stan prende la parola per chiedere come mai non ha le mestruazioni come i suoi 3 amici, che in realtà avevano perdite di sangue dal sedere dovute ad un batterio).
Ma, essendo impossibile parlare compiutamente di South Park, voglio solo ricordare alcuni dei personaggi più incredibli, oltre ai protagonisti Stan, Cartman, Kyle, Kenny e Butters:


Herbert/Janet Garrison, il maestro delle elementari, razzista, omosessuale represso fino a quando non si dichiara. Nel primo episodio della 9 serie si opera per diventare donna. In un episodio dell'undicesima stagione la "signora Garrison" diventa lesbica.

Timmy, un bambino handicappato, sa dire solo il suo nome e in suo onore verrà cambiata la sigla (eseguita dai Primus) per alcuni episodi (Timmy timmy timmy timmy got to die).

Mister Hankey, l'escremento di Natale, arriva a livelli di super eroe in alcune puntate.

Asciughino, (Towelee in originale) asciugamano parlante creato in laboratorio, appassionato fumatore di marijuana.

martedì 15 gennaio 2008

crollo


Ho amato, incondizionatamente fin dall'inizio, da "Estensione del dominio della lotta", il lucido e spietato realismo di Michel Houellebecq, che considero uno dei massimi autori di questo inizio millennio. E' stata quindi una bella sorpresa scoprire, un paio d'anni fa, un autore altrettanto inesorabile nella sua disamina del genere umano, qui in Italia. Vitaliano Trevisan è un vicentino classe 1960 (dunque un paio d'anni più giovane di Houellebecq) che dopo aver esordito nel 1995 è cresciuto a dismisura (nel frattempo occupandosi anche di cinema - con sceneggiature e interpretando il film di Matteo Garrone "Primo amore" - e musica), fino ad arrivare a due capolavori come "I quindicimila passi" (2002) e, soprattutto, l'ultimo "Il ponte - Un crollo", in cui il paragone con Pier Paolo Pasolini è inevitabile. Anche in questo breve romanzo ritroviamo l'alter ego letterario di Trevisan, Thomas, che con implacabile rigore ci mette di fronte allo squallore di certa vita in provincia (credo che nel vicentino lo odino alla morte...), ai contorti meccanismi della famiglia, alla pochezza politica del nostro paese, allo smarrimento di chi, in questo paese, sceglie di vivere di e per la cultura. La trama, solo leggermente gialla, è un pretesto per lunghe e profonde digressioni ipercritiche del protagonista (scappato dal suo agghiacciante ambiente familiare e trasferitosi in Germania) nei confronti degli altri, dell'Italia, di se stesso. E, come per Pasolini, il crollo del titolo è quello del passato nel presente: "In Italia, pensavo, il senso dello stato è sempre stato assente, ma mai così palesemente e sfacciatamente assente e paurosamente coincidente con l'interesse privato di quanto lo sia ora. Se sono arrivato a rimpiangere i politici democristiani, penso, vuol dire che il fondo è stato toccato davvero. Povero Pasolini, che riponeva le sue speranze nei giovani comunisti! Se solo li vedesse ora, quei piccolo borghesi di sinistra che hanno tradito in tempo di pace, per salvare i loro appartamenti in centro, o le loro ville e villette in Toscana, o le loro barche a vela eccetera .... Precipitati, pensai, arrivati al fondo da tempo, e nel fondo c'è poco, e quel poco è il peggio. Tutti quei giornali e telegiornali di merda, pensavo, non fanno che testimoniare fedelmente la situazione di quel paese cosiddetto democratico cosiddetto cristiano, che ormai da decenni ha toccato il fondo, e da anni non fa che rimestare nella merda democristianocattolica rimasta sul fondo, la quale, essendo la merda rimasta sul fondo, è la merda peggiore di tutte. I giornali di tutto il mondo, da sempre, sono specializzati nel rimestare nella merda, ma nessuno al mondo rovista così volentieri e appassionatamente come i giornali italiani. Nessuno al mondo si avvicina anche solo lontanamente alla sfacciataggine con cui i giornali italiani si vantano e addirittura si gloriano del loro rovistare e rimestare nella merda, rovistare e rimestare che, essendo, inevitabilmente un rovistare e rimestare all'italiana, è sempre un rovistare e rimestare scomposto e disordinato...". E così via. Forse dovrei citare tutto il libro, perchè nessuna parola è di troppo. Forse lo farò.

domenica 6 gennaio 2008

ma per favore


Non so perchè - sarà l'età che mi rincoglionisce - sono andato a vedere Irina Palm, film che non poteva che essere brutto. Ma che fosse così brutto non me l'aspettavo, e almeno c'è stata un po' di sorpresa. La trama è quanto di più scontato si possa immaginare: Maggie (una Marianne Faithfull monoespressiva) è la nonna di un ragazzino affetto da rara malattia la cui ultima e unica speranza è una cura nella lontana Australia. Inutile dire che il padre (cioè il figlio di Maggie) non ha un soldo e che nessuno, nella crudele Inghilterra thatcheriana, è disposto a prestargli alcunché. Finchè la nostra Maggie non si imbatte in un sex club in cerca di una "hostess" particolare, ossia una "seghista", che masturba gli uomini attraverso un buco di una parete, senza cioè che questi vedano chi è l'autrice del lavoretto. Inutile ancora dire che Maggie si rivelerà un fenomeno, che raccatterà tutti i soldi che servono per il nipote, che suo figlio si incazza ma poi capisce, che Maggie trova soddisfazione nello scandalizzare le amiche moraliste e ipocrite, che il nipote si salva e che, mioddio, Maggie si innamora, ricambiata, del suo duro magnaccia.
Ma al di là di una sconfortante scontatezza, il film rimane anche sempre in bilico tra il voler essere drammatico (ma dopo aver visto decine di Loach, Leigh e Winterbottom occorre molto molto di più per affrontare la recente storia sociale inglese) e una commedia sul modello dei vari Full Monty, l'Erba di Grace etc etc, non riuscendo mai nè a far sorridere nè tanto meno a far riflettere. Ciliegina sulla torta (rancida) una colonna sonora totalmente inadeguata, due accordi di chitarra ossessivi che farebbero la felicità di Jarmusch (che comunque se li fa fare da Neil Young) ma che qui non c'entrano una beata minchia. Bah.