venerdì 11 aprile 2008
the joke
Finalmente, qualche sera fa al Lumiere di Bologna, ho avuto la fortuna di assistere all'incredibile "film" La beffa (The Joke), di Mactan Latrodectus, di cui tanto si è detto e letto, soprattutto in internet. Quest'opera muta in bianco e nero del vincitore del Sundance 2007 (sezione "New faces for the new millennium") usa il pubblico "come cast riflesso" ed è una parodia degli "eventi specifici del pubblico" di Hollis Frampton. In pratica due videocamere riprendono nella sala il pubblico del "film" e proiettano sullo schermo le immagini risultanti, ossia il pubblico della sala che guarda se stesso guardare se stesso mentre comprende "la beffa" e si mostra sempre più imbarazzato e a disagio e ostile, comprendendo di far parte dell'involuto flusso "antinarrativo" del film. La durata del tutto è, ovviamente, imprevedibile - nel mio caso una quarantina di minuti prima che tutti se ne andassero - e l'operazione (credo) vada presa come il titolo suggerisce. La Film & Kartridge Kultcher di Sperber ha comunque affermato che The Joke "suona inconsapevolmente la campana a morto del cinema postpoststrutturale in termini di puro fastidio". Se vi capita...
mercoledì 2 aprile 2008
sconcerto
“Dorothy. Sconcerto per Oz”, il nuovo lavoro di Fanny & Alexander (l’uso del termine “spettacolo” sarebbe puramente simbolico), porta la drammaturgia di Luigi de Angelis e Chiara Lagani a un punto di non ritorno, a una ridefinizione degli assetti teatrali realmente sconcertante con la quale occorrerà fare i conti da ora in poi. In un teatro trasformato in una sorta di luogo di rifugio da un metaforico ciclone Dorothy, gli spettatori si trovano però presto coinvolti in un altro ciclone, interno, proprio lì dove dovrebbero essere al sicuro, un ciclone che lentamente ma inesorabilmente sconvolge la morfologia del codice “platea-palcoscenico” in tutti i modi possibili. Con un deragliante effetto domino le figure delle tre streghe del Mago di Oz invocate da un bizzarro direttore d’orchestra – dalle inquietanti ma assurde fattezze hitleriane – si diffraggono su altrettante attrici impegnate nell’interpretazione di personaggi femminili landolfiani, ai quali per sinestesia si associano i “colori” di tre soprano e ancora di tre musiciste, tutte impegnate nel loro personale, scollegato, compito interpretativo. Tutto ciò potrebbe sembrare d’acchito un caos totale, ma in realtà il disordine è organizzato nei minimi dettagli, secondo i concetti di casualità e silenzio di John Cage, le cui “Europeras” sono di Dorothy una delle linee guida. E’ anzi evidente che a ben guardare il groviglio espressivo messo in atto è spesso lucidamente allineato in sottotrame perfettamente comprensibili, per cogliere le quali De Angelis e Lagani chiedono però uno sforzo in più, un’attenzione diversa dal solito, un contratto fatale tra opera e spettatore. Avanzando lungo quelle che sembrano traiettorie espressive – drammaturgiche, musicali, vocali – completamente anarchiche, sempre in bilico tra la situazione reale del disastro e quella fantastica di Oz, in uno spazio che non ha più confini canonici – parte del pubblico è alloggiata sul palcoscenico su dei lettini d’emergenza, insieme ad alcune delle interpreti –, lo (s)concerto per Oz assume sempre più i tratti di un linguaggio artistico inedito, di un meccanismo creativo del tutto nuovo, in grado di far scaturire quell’incomprensibile ma contagiosa energia che solo i rivolgimenti epocali celano in sé. Fino alla rivelazione conclusiva che l’intenzione di tutto ciò, forse, è proprio il non avere alcuna intenzione. Dorothy non è una irreversibile negazione del teatro, piuttosto uno degli atti d’amore più grande verso di esso mai realizzati.
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