giovedì 26 febbraio 2009

non faremo prigionieri - antonio rezza e flavia mastrella


Antonio Rezza e Flavia Mastrella sono il 27 febbraio al Rasi nel Nobodaddy, e io ci ho parlato.

Attore dal taglio grottesco e provocatorio, Rezza crea nei suoi spettacoli esilaranti un mondo sbilenco in cui si muovono personaggi somaticamente e interiormente deformi, dotati di un qualunquismo eccellente. Parlano un dialetto ciociaro frastagliato e tronco, sprigionato a pieni pori nella narcisistica convizione di essere individui originali, contemporanei e, nei casi più sfacciati, avanguardisti.
Spuntando qua e là tra le tele elastiche iridescenti, il performer dà vita a una sorta di tableaux vivant di “mostri” contemporanei, ognuno con una storia feroce da raccontare, ognuno barricato nel proprio microcosmo disordinato dove stracci di realtà si susseguono senza un filo conduttore. Ogni personaggio s’identifica con un’espressione del volto portata all’estremo e incorniciata nei siparietti di stoffa che diventano talvolta anche costumi (sono quelli che Rezza e Mastrella chiamano i "Quadri di scena", vere opere d'arte che Mastrella crea e che Rezza "indossa") fino a sembrare infinite maschere diverse. Ma può essere anche semplicemente il pezzo di un arto – un polpaccio, un mezzo braccio che spunta dai tagli delle stoffe – a evocare identità frantumate un in una sinfonia di voci e ritmi che procedono senza sosta. Ed ecco le capoccette parlanti che si alternano tra le finestrelle ritagliate nelle sete, nelle reti e nella juta dando il senso di quartieri popolari affollati dove il gioco e la fantasia alzano il vessillo dell'incomprensione media.

I personaggi di Pitecus vogliono rappresentare qualche categoria di umanità italica?

Rezza: «In realtà Pitecus non ha niente a che fare con l’Italia. Sono contro qualsiasi forma di patriottismo, non credo all’appartenenza. Qui si tratta di sentimenti universali, tra l’altro degli anni ’90, visto che Pitecus è uno spettacolo antico, un classico ormai. Sono cose che nemmeno mi appartengono più, anche se le rappresento con la stessa forza di allora proprio perché universali. Col tempo è sopraggiunto un idealismo che in Pitecus non c’è; in Pitecus c’è ancora la voglia di pensare, di non disperare, la possibilità di unirsi per fare, mentre in seguito è subentrato l’individualismo più spietato. Comunque lo spettacolo non c’entra con l’Italia, l’Italia non esiste».

Il vostro modo di lavorare, in cui Flavia crea i quadri di scena su cui poi Antonio dipana lo spettacolo, è una specie di simbiosi involontaria, due indipendenze che confluiscono in qualcosa di nuovo. E’ voluto o avvenuto?

Mastrella: «E’ avvenuto, perché non riusciamo a lavorare insieme. Il teatro viene alla fine, all’inizio è improvvisazione e forma». Rezza: «Il teatro che facciamo non è mai scritto, perché non può essere scritto un testo da cui poi deve passare l’energia del corpo. Siamo contro il teatro scritto, la nostra improvvisazione non è naif, è un’improvvisazione calcolatissima che poi diventa testo, ma lo diventa in quanto questo testo non è mai stato scritto da un corpo che se si siede diventa pezzente, miserabile. Noi siamo lontani da questa miseria del corpo seduto a prevedere quello che poi sarà il funzionamento di una cosa scritta che per quanto scritta non può essere messa in piedi». Mastrella: «E così pure sono i quadri di scena, che sono stati costruiti direttamente con la materia stoffa, sono intesi come opere».

Rezza, i quadri di scena rendono vivo, carne, l’amore per le arti figurative di Flavia. Questo influenza il tuo modo di fare in scena, il tuo essere performer?

«Quello che facciamo noi è qualcosa che non fa nessuno. Il teatro come spazio non esiste, io lavoro all’interno di uno spazio rielaborato che Flavia mi consegna dopo aver creato queste strutture per il suo tornaconto estetico, non per il mio, quindi è evidente che una volta che io mi trovo queste opere, che sono una donazione della sua fantasia, è chiaro che influenzano necessariamente, è giusto che sia, specialmente in Pitecus in cui i quadri di scena rappresentano la nostra avanguardia, perché io ho iniziato a muovermi lì e finirò con Pitecus, sarà lo spettacolo che quando non mi muoverò più riuscirò ancora fare, perché è faticoso ma non come gli altri. Queste “sculture” portano necessariamente il mio corpo a modificarsi in base alle idee che mi vengono quando entro in loro. E’ una rielaborazione continua del lavoro. Flavia lavora sul mio corpo, ma non sul mio corpo fisico, sull’idea del mio corpo che, è un discorso concettuale, non legato alla persona fisica».

Cosa cercate dalla rappresentazione (che per voi avviene in vari modi, dal teatro alla letteratura al cinema)? E’ un’esigenza personale? Volete dire qualcosa a qualcuno? Oppure è puro istinto, pura vita?

Mastrella: «Una domanda difficilissima. Istinto non credo, penso che sia esigenza». Rezza: «Per me è un’urgenza. E’ urgente fare ciò che facciamo, inevitabilmente. Noi lavoriamo in assoluta precarietà di raffinatezza. Non sappiamo mai quello che facciamo, dove andiamo, se troviamo gli spazi, perché siamo visti scomodi dagli altri. Nonostante abbiamo parecchie difficoltà abbiamo sempre tantissime cose da fare, proprio perché siamo urgenti». Mastrella: «Quando poi il lavoro è finito l’urgenza è finita, bisogna subito pensare a un’altra cosa da fare. L’urgenza è anche una versione creativa, si autoascolta».

Si riparte sempre da zero.

Rezza: «Sì, si rappresenta quello che si è fatto necessariamente, perché la rappresentazione è per noi anche una forma di autosovvenzionamento. Noi non prendiamo soldi dallo Stato, ed è una scelta politica coraggiosa, non so quanti in Italia abbiano portato avanti questa forma di religione». Mastrella: «Più che religione, una forma di lotta». Rezza: «Sì, non prendere i soldi è una forma di lotta contro lo Stato».

L’Italia, in questo momento, mi sembra un paese davvero poco adatto per chi rompe completamente certi standard nel fare arte, spettacolo. Che rapporto avete col nostro Paese?

Mastrella: «Se uno la vive dal punto di vista dello spazio l’Italia è bellissima, ci sono degli spazi fantastici. Il problema è chi ci abita. Ma è sempre stato così, è da dopo la guerra che l’Italia sta subendo un fenomeno di analfabetismo medio; è un lavoro che parte dall’alto e che viene fatto da sessant’anni». Rezza: «Io credo che il mio rapporto sia di amore, non verso la terra ma verso la luce; e di odio verso le istituzioni. Ad esempio, quello che manca a gente come noi è il contatto con persone che fanno la stessa vita, però ti assicuro che anche persone insospettabili che abbiamo contattato si negano a una dialettica della negazione della speranza, ma comunque a qualsiasi dialettica, tanto che difficilmente riusciamo ad avere degli interlocutori». Mastrella: «C’è poco contatto tra gli artisti». Rezza: «Non solidarietà, contatto. Non c’è contatto tra chi fra arte, e se manca questo manca tutto. Noi spesso cerchiamo contatti con chi stimiamo, ma poi spesso è proprio chi stimi che ti delude. Comunque qualcuno alla fine lo troviamo, per questo ci rendiamo disponibili quasi a tutti».

E’ evidente che i vostri spettacoli sono violentemente antinarrativi, dunque molto fisici, corporei. Forse è da questo che scaturisce la risata irrefrenabile, perché è legata allo stomaco e non al cervello.

Rezza: «Il nostro teatro è antinarrativo per statuto, la narrazione è un cancro, una metastasi che sta distruggendo la voglia di stupore del pubblico; sono tutti racconti in cui il pubblico segue il filo del discorso che è poi il filo che lo impicca». Mastrella: «C’è poi il fatto che nelle storie, nella frammentazione della narrazione, ognuno dà i connotati precisi alla storia, quindi il lavoro narrativo non si ferma a chi lo fa ma finisce su chi lo vede». Rezza: «Vedendo i nostri spettacoli si smotta sulla poltrona, perché non c’è la certezza di una narrazione. La narrazione rappresenta la scelta politica di campo che c’è oggi».

Voi non amate i paragoni, le correnti artistiche, le definizioni, le influenze, quindi ciò che create viene dalla vostra interiorità, da un tempo a grado zero che vede solo il futuro?

Mastrella: «Anche dalle influenze esterne». Rezza: «Flavia legge, io no; penso che, quando due persone lavorano insieme, se ce n’è uno che studia e uno che ignora il risultato sia migliore, nel senso che anche l’ignorare è un lavoro, io faccio fatica a ignorare, non mi viene così spontaneamente, mi devo impegnare molto per essere una persona che ignora, come lei deve impegnarsi molto per essere una persona che segue, che studia. Però l’evoluzione è parallela, e tutto ciò che esce esce da noi, per quell’urgenza di cui parlavamo prima. Il fare perché il non fare sarebbe troppo doloroso, tutto qui».

Ha senso la critica nella rappresentazione, sia essa teatrale, cinematografica, letteraria? Può esistere il ruolo di critico come tramite tra autore e pubblico?

Mastrella: «Il lavoro del critico è costruire qualcosa intorno a quello che si vede, e ce ne sono pochi che costruiscono. Per l’arte figurativa magari un po’ di più. Comunque la critica ha senso se è creativa, ma creativa non in senso scolastico; deve essere una critica costruttiva, che dà un’immagine che non si vede. Che apre altre vie, altre letture, e questo sono in pochi che lo sanno fanno». Rezza: «Io dovrei risponderti con una frase del Pasolini del film “Teorema”, e cioè che l’arte deve creare delle espressioni talmente nuove che la critica non abbia gli strumenti per decifrarle. Bisogna essere così sempre diversi da non poter dare alla critica di parlare di quello che uno fa. Se nel nostro caso dopo tanti anni ancora i critici del teatro pensano che Falvia Mastrella realizzi delle scenografie, questo significa che il nostro lavoro è veramente all’avanguardia, che non ci sono gli strumenti per definirlo. Non si hanno gli strumenti per differenziare due persone unite, anarchiche e complementari».

Quindi per voi la critica è una sorta di misurazione della vostra avanguardia?

Rezza: «Sì, da lì io capisco che stiamo lavorando bene. Vedendo Pitecus ci si rende conto che quello è un teatro di genere; se avessimo lavorato con i quadri di scena per tutta la vita, la critica avrebbe avuto la possibilità di incanalarci, di capirci e di farci più ricchi. Negli spettacoli successivi a quello invece abbiamo abbandonato sempre quello che avevamo fatto prima e continuano a non capire letteralmente un cazzo. E quindi ci fanno un favore, perché noi così siamo sicuri che stiamo lavorando bene».

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