giovedì 15 novembre 2007

Ubu quoi?


Ho sempre seguito e molto apprezzato il lavoro del Teatro delle Albe, che non solo non ha praticamente mai sbagliato uno spettacolo ma ha anche radicato, in oltre vent’anni di attività, la “malattia” teatro talmente in profondità a Ravenna da trasformare la città in un esempio unico di proliferazione di compagnie, di educazione teatrale in senso molto lato verso una bella fetta di cittadinanza (e soprattutto verso gli studenti delle scuole) e di (ultimamente) efficace crossover culturale. Dalla non-scuola delle Albe sono usciti negli anni ottimi attori e registi, ora sul palco insieme a Marco Martinelli o impegnati in progetti personali. Proprio il coinvolgimento dei giovanissimi è stato alla base di molte produzioni delle Albe, dalla prima splendida versione dei Polacchi, alla Canzone, fino a quel capolavoro che è Sterminio. Un plauso è dunque doveroso. Ma anche il meccanismo più rodato e vincente può alla lunga risultare fallibile. Con il nuovo Ubu Buur Martinelli intendeva fondere la formula della non-scuola – spettacoli non pensati per adolescenti ma da adolescenti – alla rivisitazione dell’Ubu Roi di Jarry con nuovi cori di palotini (come fatto a Chicago con un gruppo di afro-americani o, volendo, con il progetto Scampia). Per quanto però il coinvolgimento del nuovo gruppo di palotini senegalesi sia lodevole sotto mille aspetti (il fatto di essere andati a tenere il laboratorio direttamente nel loro villaggio, l’aver portato i ragazzi in tournée in Europa, la fratellanza universale, eccetera eccetera) tuttavia questo non toglie che Ubu Buur – comunque osannato dalla stampa – fatichi molto a convincere come spettacolo. Il ritmo – tenuto alto dai soliti Ermanna Montanari e Mandiaye N’Diaye e dall’ormai consacrato Robi Magnani – ha dei continui cali di tensione, in gran parte dovuti alla impossibilità di integrare il nuovo coro allo svolgimento drammaturgico, che, se nei primi Polacchi traeva la sua forza proprio dal giovane gruppo di palotini, qui appare completamente frammentato, come una serie di gag intervallate forzosamente dagli interventi del coro. L’impressione insomma è quella di stonatura, di un’eccessiva indulgenza da parte della regia verso i rischi di sincretismo che questo Ubu, più degli altri, correva. E’ vero che quello di Jarry è uno dei testi più simbolici, universali e slegati da qualsivoglia contesto che si possano affrontare, ma, molto semplicemente, è anche vero che il gioco della personalizzazione totale a volte possa non funzionare.

3 commenti:

Maud ha detto...

a parte tutto (e sono d'accordo con te, lo spettacolo dei ragazzi di scampia mi ha restituito impressioni simili), leggerti mi ha fatto venire una qual certa nostalgia del teatro rasi e della non-scuola, che a dispetto della mia veneranda età l'anno scorso sono stati per me a dir poco salvifici.

Morphine ha detto...

Oddio, Maud ci diventa nostalgica... E' colpa di quei buzzurri che parlano in modo strano!!!

Anonimo ha detto...

D'accordissimo te. Spettacolo mediamente fiacco che riesce a brillare solo quando vengono rimesse in scena i pezzi esatti tratti da "I Polacchi"