venerdì 30 novembre 2007

Dark Knight goes to Arkham


Nella seconda metà degli anni Ottanta una nuova generazione di sceneggiatori e disegnatori irrompe sulla scena dei comics americani, soprattutto quelli editi da Marvel e DC e quindi aventi a che fare con la maggior parte dei supereroi, sull'onda innovativa provocata da gente come John Romita Sr. prima e Frank Miller e Romita Jr. poi. Il la lo dà Miller nel 1986 con "Batman: the Dark Knight returns", una graphic novel monumentale e intrisa di temi politici in cui l'Uomo Pipistrello diventa un antieroe lontano anni luce dagli standard abituali. Tocca poi al canadese Todd McFarlane reinventare completamente Spiderman, grazie a uno stile del tutto nuovo, ipercinetico, che rompe gli schemi del comic book. Sempre nell'86 altri due capolavori come "Watchmen" di Alan Moore e Dave Gibbons (con Moore che veniva dall'immenso "V for Vendetta") e "Elektra: Assassin" di Miller e Bill Sienkiewicz completeranno la rivoluzione della figura del supereroe e del modo di disegnarlo. Non più il difensore dei deboli e della libertà in costume sgargiante, ma uomo cupo, prigioniero del proprio personaggio, impuro, ossessionato dal passato, da mille problemi, dal peso delle responsabilità, rappresentato con forme e oscure sfumature cromatiche che nulla hanno a che fare con la tradizione. Ma il picco di questa nuova tendenza viene raggiunto nel 1990 con la graphic novel "Arkham Asylum: a serious house on serious earth", scritta da Grant Morrison e disegnata magistralmente da Dave McKean. Lo scozzese Morrison, legato da una sorta di amore/odio a Moore, viene chiamato dalla DC, che voleva proseguire nel trend di autori britannici, proprio a sostituire Moore. La sua versione del vecchio gruppo di supereroi della Doom Patrol è la serie che gli dà subito la fama oltreoceano, per il trattamento inconsueto che riesce ad infondere nella sceneggiatura di un fumetto di supereroi. E anche McKean, inglese, tra l'altro ottimo jazzista, viene dal capolavoro "Black Orchid", realizzato con Neil Gaiman. Se nel devastante "Dark Knight returns" Frank Miller ci aveva restituito un Batman più umanamente tormentato e spiritualmente più vicino al comune patire, quello del duo Morrison-McKean che si aggira nell'antico Arkham Asylum (il manicomio di Gotham City) è un Bruce Wayne estremo, abissale, costantemente in fuga da se stesso, in bilico tra una salvezza che il finale annuncia improbabile o sfregiata, e la perdizione definitiva. Dentro Arkham - dove è intervenuto a causa della rivolta dei pazienti (ossia i suoi più storici nemici) - Batman ritrova ovviamente la nemesi The Joker, vero protagonista di tutta la vicenda e chiaro rappresentante del lato più oscuro e malato di Wayne. In questo geniale romanzo visivo Morrison riesce a mischiare con naturalezza l'azione con una visione onirica e decisamente surreale, caratterizzata da vari elementi (dadaismo, supereroismo, strutturalismo, ecc), arrivando a una versione allucinata e psicotica di Batman e dei suoi nemici tuttora insuperata. Non da meno McKean, grazie a un codice iconografico straordinario e vertiginoso. L' artista inglese è un Bacon del fumetto (il lavoro è caratterizzato dalla commistione di varie tecniche, quali disegno tradizionale, fotografia, collage e computre grafica) in cui astrattismo avanguardista, reminiscenze classiche e moderne si fondono naturalmente, per accumulazioni, per sovrapposizioni inaspettate, scolpendo personaggi ora travagliati, lugubri e gotici, ora sfocati ed imprendibili.
Dopo Arkham Asylum la parola "fumetto" suonerà per sempre un po' riduttiva...

sabato 24 novembre 2007

The air is on fire







Che David Lynch fosse un genio non lo scopro certo io. Una sorpresa è stato invece scoprire quanto quest'uomo sia altrettanto geniale in forme d'arte diverse dal cinema, come pittura, fotografia, musica, installazioni materiche (chiamiamole così). Consiglio dunque vivamente una visita alla mostra David Lynch. The air is on fire, aperta alla Triennale di Milano fino al 13 gennaio. Ho avuto la fortuna di imbattermici qualche mese fa a Parigi ed è stata una delle cose più interessanti viste ultimamente. Ammetto di essere andato spinto esclusivamente dalla curiosità e dalla grande attrazione che ho verso Lynch come personaggio, prima ancora che come artista, senza dunque aspettarmi chissà quali meraviglie a livello artistico. E invece. Invece la mostra è un trip incredibile.
L'esposizione nasce dall’accumulo di quadri, cartelle etichettate che contengono quantità di disegni, scatole d’archivio piene di fotografie presenti nello studio di David Lynch, il tutto riunito in un allestimento ideato da Lynch stesso. I dipinti (enormi, ipnotici, realizzati con l'inserimento di elementi e oggetti real), le fotografie e i disegni di Lynch evocano le sue esperienze d’infanzia, i fantasmi dell’adolescenza, le sue preoccupazioni di adulto.
Il tema ricorrente della casa, con le sue risonanze inquietanti, appare in quadri scuri dalle superfici organiche e dai messaggi misteriosi. Il sense of humor irriverente del regista è presente sia nei suoi dipinti più seri (con l'assurdo e inquietante personaggio Bob), sia nel momento in cui apporta una risata salvifica ai suoi film più sconcertanti.
Anche il sottofondo sonoro (cangiante, volendo, per opera dello spettatore) riflette perfettamente l'atmosfera della mostra, insinuandosi lentamente tra noi e le opere; un borbottio elettronico misterioso e piuttosto inquietante che sembra sempre sull'orlo di trasformarsi in un maelstrom furioso.
Questa cosa è assolutamente da vedere. Assolutamente.

lunedì 19 novembre 2007

compreresti un'auto usata da quest'uomo?


"Sono a favore del referendum ma non firmo"
"Berlusconi ha fatto anche cose buone"
"Vorrei nel mio team Beppe Pisanu, la Prestigiacomo e la Moratti"
"Stimo Ronald Reagan"
"Mi piace molto Sarkozy"

Vai così Walter...

giovedì 15 novembre 2007

Ubu quoi?


Ho sempre seguito e molto apprezzato il lavoro del Teatro delle Albe, che non solo non ha praticamente mai sbagliato uno spettacolo ma ha anche radicato, in oltre vent’anni di attività, la “malattia” teatro talmente in profondità a Ravenna da trasformare la città in un esempio unico di proliferazione di compagnie, di educazione teatrale in senso molto lato verso una bella fetta di cittadinanza (e soprattutto verso gli studenti delle scuole) e di (ultimamente) efficace crossover culturale. Dalla non-scuola delle Albe sono usciti negli anni ottimi attori e registi, ora sul palco insieme a Marco Martinelli o impegnati in progetti personali. Proprio il coinvolgimento dei giovanissimi è stato alla base di molte produzioni delle Albe, dalla prima splendida versione dei Polacchi, alla Canzone, fino a quel capolavoro che è Sterminio. Un plauso è dunque doveroso. Ma anche il meccanismo più rodato e vincente può alla lunga risultare fallibile. Con il nuovo Ubu Buur Martinelli intendeva fondere la formula della non-scuola – spettacoli non pensati per adolescenti ma da adolescenti – alla rivisitazione dell’Ubu Roi di Jarry con nuovi cori di palotini (come fatto a Chicago con un gruppo di afro-americani o, volendo, con il progetto Scampia). Per quanto però il coinvolgimento del nuovo gruppo di palotini senegalesi sia lodevole sotto mille aspetti (il fatto di essere andati a tenere il laboratorio direttamente nel loro villaggio, l’aver portato i ragazzi in tournée in Europa, la fratellanza universale, eccetera eccetera) tuttavia questo non toglie che Ubu Buur – comunque osannato dalla stampa – fatichi molto a convincere come spettacolo. Il ritmo – tenuto alto dai soliti Ermanna Montanari e Mandiaye N’Diaye e dall’ormai consacrato Robi Magnani – ha dei continui cali di tensione, in gran parte dovuti alla impossibilità di integrare il nuovo coro allo svolgimento drammaturgico, che, se nei primi Polacchi traeva la sua forza proprio dal giovane gruppo di palotini, qui appare completamente frammentato, come una serie di gag intervallate forzosamente dagli interventi del coro. L’impressione insomma è quella di stonatura, di un’eccessiva indulgenza da parte della regia verso i rischi di sincretismo che questo Ubu, più degli altri, correva. E’ vero che quello di Jarry è uno dei testi più simbolici, universali e slegati da qualsivoglia contesto che si possano affrontare, ma, molto semplicemente, è anche vero che il gioco della personalizzazione totale a volte possa non funzionare.

domenica 11 novembre 2007

rabbia


Non era facile per Chuck Palahniuk scrivere un libro più bello di quelli che ha già scritto. Ma il nuovo Rabbia - Biografia orale di Buster Casey supera in scioltezza i fantasmi di Fight Club e Soffocare, diventando la sua opera più coinvolgente e complessa, la più contagiosa e subdolamente disturbante. La forma in cui è scritto è una novità (per Palahniuk, certo), ossia la ricostruzione della storia del protagonista, l'anti-eroe Rant Casey, tramite una serie di testimonianze, di ricordi, di interviste trascritte. Ma è soprattutto per la trama, per i temi, che Rabbia si stacca dal passato, mescolando bizzarrie, situazioni scabrose e atmosfere paradossali care al vecchio Chuck con inedite incursioni nei territori della fantascienza e della fisica quantistica. La sorpresa è che proprio questi excursus - soprattutto quelli, molto affascinanti, sulle teorie del tempo come dimensione bi-direzionale - sono splendidamente riusciti, dopo le migliaia di pagine ormai stra-lette sullo stesso tema. Pur non perdendo un grammo della sua cattiveria, Palahniuk dà forma a una storia molto più strutturata che in passato, più "logica" (base, crescendo, colpi di scena, finale...), calandoci poco per volta e inesorabilmente in un mondo agghiacciante ma, come sempre, non molto lontano dalla realtà.
Solo un altro scrittore univa così magistralmente fantascienza e cinismo riferendosi comunque, tra le righe, sempre al presente, e sembrava che come lui non ne arrivassero più.
Si chiamava Kurt Vonnegut. Se n'è andato in aprile di quest'anno. Forse sapendo di aver lasciato la sua lezione in buone mani.