mercoledì 30 gennaio 2008

due


Ad intervalli regolari non posso fare a meno di ascoltare e rimanere (ogni volta) incantato dall’album “2”, dei Black Heart Procession, disco che ho amato fin da subito (forse anche perché legato al meraviglioso periodo della mia vita in cui stavo con la cugina di Diego, che come tutti sanno è la ragazza più bella del mondo). Nati nel 1998 da una costola dei californiani Three Mile Pilot (nella fattispecie il cantante Pall Jankins e il tastierista/polistrumentista Tobias Nathaniel), i BHP arrivano nel 1999 a questo “2” (su Touch and Go) dopo il buon esordio omonimo. Immaginiamo una scala di marmo nero che si arrampica verso un tempio esoterico chiuso da un cancello arruginito e cigolante. Il cielo attorno a noi è del colore del sangue venato di viola addobbo funebre. La luna è gialla, piena e sospesa bassa all’orizzonte mentre un nugolo di pipistrelli transilvanici ci svolazza sulla testa. Un rumore di quelle che sembrano catene trascinate si sente provenire da quelle che probabilmente sono le segrete del tempio. Ma nonostante tutta l’oscurità e l’inquietudine evocate dobbiamo entrare nel tempio. Lo richiede proprio l’atmosfera che si è creata. Perché se vogliamo riabbracciare l’amore della nostra vita occorre affrontare un terrore inimmaginabile, senza nemmeno avere certezza alcuna. Questo è quanto. E’ chiaro che Jenkins – la cui voce è cresciuta a dismisura dall’album precedente – e Nathaniel sono più che attratti da composizioni malinconiche in cui la parola cuore ritorna in maniera ossessiva, arrangiate con una strumentazione minimale (tra cui la famosa sega suonata con l’archetto). Tutta l’idea di 2 è quella di un lento corteo gonfio di spleen, fedele alla canzone d’autore americana (da Cash a Dylan, a Tim Buckley, a Tom Waits, fino a Smog e ai Calexico). Ma non è il genere, bensì una poetica introspezione, ad amalgamare alla perfezione i vari pezzi del disco, dal marziale e dilatato crescendo di “A light so dim” (sette minuti di lamenti, cigolii e voci dall’inferno. Brividi…) al folk noir di “Young church is red” (una chiesa rossa di sangue, una chitarra, un organo e la voce di Jenkins scandiscono questa ballata di folk spettrale, col ritornello che si chiude con una frustata di chitarra), fino al capolavoro “Blue tears”, ieratica, solenne, da lacrime. I Black Heart Procession riescono in questo lavoro ad articolare la difficoltà di una lotta contro la subdola depressione che un cuore infranto può indurre. E il viaggio termina da dove era iniziato, e cioè con "The Waiter #3", una reprise dell’apertura con un suono leggermente più accentuato e con Jenkins che sembra più stanco, come provato dall'esperienza del dolore. Una scelta che in definitiva evidenzia la caratteristica circolare del disco, facendone quasi un concept sulla delusione e la speranza.

venerdì 25 gennaio 2008

american hardcore


Colui Che Non Sbaglia Mai mi ha regalato da poco il superbo dvd "American hardcore - La storia del punk americano 1980-1986", realizzato da Paul Rachman basandosi sul libro di Steven Blush "American Punk Hardcore". Il film vero e proprio - circa un'ora e quaranta - racconta tramite una messe incredibile di filmati inediti (soprattutto di live) e interviste (vecchie e nuove) ai protagonisti stessi la nascita e l'esplosione irrefrenabile di un movimento inaspettato e del tutto autonomo, "do it yourself", che nel giro di pochi mesi tra la fine del 1979 e l'inizio del 1980 si trasformò, oltre che nel nuovo undeground musicale statunitense, in una durissima forma di protesta sociale contro la presidenza Reagan. Black Flag, Minor Threat, DOA, Murphy's Law, Youth Brigade, Bad Brains, Circle Jerks, Suicidal Tendencies, Agnostic Front, Negative Approach e tutti gli altri gruppi del periodo non sono solo un modo di fare musica, ma un vero stile di vita, una specie di movimento politico a cui si poteva aderire solo buttandocisi dentro totalmente. Reagan voleva riportare gli States agli anni '50 e molti giovani captavano la sua falsità, la detestevano. Sentivano che qualcosa non andava e che il punk rock era la strada per uscirne fuori, il modo per dar vita a una controcultura stridente e assolutamente inaccettabile da qualsiasi forma di mainstream. E il documentario ti fionda proprio nel cuore di questo movimento, attraverso tutti gli Stati Uniti, mostrando le differenze da stato a stato e la stessa incontenibile energia e aggressività. Ci troviamo tutti: Henry Rollins, ovviamente, Dean e Mullin dei COC, Spira dei Wasted Youth, Jimmy Gestapo, gli Adolescents, H.R., gli SSD e avanti così, con un risultato che è un assalto violento di immagini e musica e che cattura lo spirito dei gruppi e di un movimento che manda affanculo i politici, le case discografiche e tutto ciò che intralcia loro il cammino.

"L'ho tenuta imbottigliata dentro per anni, invece di lottare o di piangere. Adesso è tempo di lasciarla uscire, il mio punto d'ebollizione sta per arrivare" - SSD

sabato 19 gennaio 2008

welcome to


Mi meraviglio come nell'iper-reazionaria italietta ci sia ancora la possibilità di vedere su canali tradizionali (Mtv non satellitare) la serie South Park. E ancor più incredibile è che le prime quattro stagioni (seppur ampiamente censurate, doppiate in modo edulcorato, tagliate) siano state trasmesse ad inizio anni 2000 da una rete mediaset. Comunque. South Park è in assoluto il serial più intelligente, divertente, caustico, autoironico, anticonvenzionale, dissacrante e cazzone della storia della tv.
Le origini del cartone risalgono al 1992, quando i suoi creatori Trey Parker e Matt Stone crearono un cortometraggio animato chiamato "Jesus vs. Frosty" in cui appare un primo prototipo dei personaggi principali di South Park e che impressionò un illuminato dirigente della Fox, che nel 1997 mette per la prima volta in onda la serie.
Le provocazioni del cartone costrinsero alle proteste i portavoce di chi riteneva offensivo il programma, e i gadget di South Park (soprattutto le magliette) furono banditi da numerose scuole, dai centri di assistenza per minori, e da altri luoghi pubblici.
Attualmente la serie è giunta alla sua undicesima edizione, subendo una rapida evoluzione verso l'abbandono di temi più ingenui e la focalizzazione su importanti questioni sociali, morali e politiche, pur non rinunciando alla sua impronta naïf che contrasta con gli argomenti formali, affrontati con i temi classici della satira (produzioni del corpo, argomenti tabù). Particolarmente "feconda" sembra la relazione fra South Park e la chiesa cattolica, bersagliata per fortuna senza pietà in più occasioni. Oltre all'esempio di Do the handicapped go to hell? (in cui i ragazzini protagonisti devono confessarsi per la prima volta e viene loro spiegato che dovranno raccontare ad un prete tutti i peccati commessi, pena le fiamme eterne dell'inferno. Ma nel loro gruppetto c'è Timmy, bambino paraplegico che sa solo ripetere il proprio nome, sollevando fra i compagni la preoccupazione che, non potendosi confessare, possa venire ingiustamente condannato all'eterna dannazione) esistono personaggi che richiamano direttamente la fede, a partire da Gesù, ritratto come un abitante qualsiasi di South Park che, con aureola e tonaca bianca, conduce un talk show in cui non sempre riesce a dare delle risposte esaustive sulle grandi domande della religione. In una puntata (Jesus Vs. Satan) si organizza un grottesco match di pugilato fra Gesù e il Diavolo, annunciato da suo figlio Damien. In un'altra puntata (Are You There God? It's Me, Jesus), tutta South Park aspetta l'arrivo di dio, annunciato per un eccesso di "superbia" da Gesù. Così Dio scende sulla terra, mostrandosi agli occhi degli uomini come una creatura bizzarra, un rettile piccolo e mostruoso, ma di una saggezza infinita. Purtroppo le sue risposte saranno vane, dal momento che l'unica domanda che concederà alla popolazione di South Park verrà bruciata in maniera futile (Stan prende la parola per chiedere come mai non ha le mestruazioni come i suoi 3 amici, che in realtà avevano perdite di sangue dal sedere dovute ad un batterio).
Ma, essendo impossibile parlare compiutamente di South Park, voglio solo ricordare alcuni dei personaggi più incredibli, oltre ai protagonisti Stan, Cartman, Kyle, Kenny e Butters:


Herbert/Janet Garrison, il maestro delle elementari, razzista, omosessuale represso fino a quando non si dichiara. Nel primo episodio della 9 serie si opera per diventare donna. In un episodio dell'undicesima stagione la "signora Garrison" diventa lesbica.

Timmy, un bambino handicappato, sa dire solo il suo nome e in suo onore verrà cambiata la sigla (eseguita dai Primus) per alcuni episodi (Timmy timmy timmy timmy got to die).

Mister Hankey, l'escremento di Natale, arriva a livelli di super eroe in alcune puntate.

Asciughino, (Towelee in originale) asciugamano parlante creato in laboratorio, appassionato fumatore di marijuana.

martedì 15 gennaio 2008

crollo


Ho amato, incondizionatamente fin dall'inizio, da "Estensione del dominio della lotta", il lucido e spietato realismo di Michel Houellebecq, che considero uno dei massimi autori di questo inizio millennio. E' stata quindi una bella sorpresa scoprire, un paio d'anni fa, un autore altrettanto inesorabile nella sua disamina del genere umano, qui in Italia. Vitaliano Trevisan è un vicentino classe 1960 (dunque un paio d'anni più giovane di Houellebecq) che dopo aver esordito nel 1995 è cresciuto a dismisura (nel frattempo occupandosi anche di cinema - con sceneggiature e interpretando il film di Matteo Garrone "Primo amore" - e musica), fino ad arrivare a due capolavori come "I quindicimila passi" (2002) e, soprattutto, l'ultimo "Il ponte - Un crollo", in cui il paragone con Pier Paolo Pasolini è inevitabile. Anche in questo breve romanzo ritroviamo l'alter ego letterario di Trevisan, Thomas, che con implacabile rigore ci mette di fronte allo squallore di certa vita in provincia (credo che nel vicentino lo odino alla morte...), ai contorti meccanismi della famiglia, alla pochezza politica del nostro paese, allo smarrimento di chi, in questo paese, sceglie di vivere di e per la cultura. La trama, solo leggermente gialla, è un pretesto per lunghe e profonde digressioni ipercritiche del protagonista (scappato dal suo agghiacciante ambiente familiare e trasferitosi in Germania) nei confronti degli altri, dell'Italia, di se stesso. E, come per Pasolini, il crollo del titolo è quello del passato nel presente: "In Italia, pensavo, il senso dello stato è sempre stato assente, ma mai così palesemente e sfacciatamente assente e paurosamente coincidente con l'interesse privato di quanto lo sia ora. Se sono arrivato a rimpiangere i politici democristiani, penso, vuol dire che il fondo è stato toccato davvero. Povero Pasolini, che riponeva le sue speranze nei giovani comunisti! Se solo li vedesse ora, quei piccolo borghesi di sinistra che hanno tradito in tempo di pace, per salvare i loro appartamenti in centro, o le loro ville e villette in Toscana, o le loro barche a vela eccetera .... Precipitati, pensai, arrivati al fondo da tempo, e nel fondo c'è poco, e quel poco è il peggio. Tutti quei giornali e telegiornali di merda, pensavo, non fanno che testimoniare fedelmente la situazione di quel paese cosiddetto democratico cosiddetto cristiano, che ormai da decenni ha toccato il fondo, e da anni non fa che rimestare nella merda democristianocattolica rimasta sul fondo, la quale, essendo la merda rimasta sul fondo, è la merda peggiore di tutte. I giornali di tutto il mondo, da sempre, sono specializzati nel rimestare nella merda, ma nessuno al mondo rovista così volentieri e appassionatamente come i giornali italiani. Nessuno al mondo si avvicina anche solo lontanamente alla sfacciataggine con cui i giornali italiani si vantano e addirittura si gloriano del loro rovistare e rimestare nella merda, rovistare e rimestare che, essendo, inevitabilmente un rovistare e rimestare all'italiana, è sempre un rovistare e rimestare scomposto e disordinato...". E così via. Forse dovrei citare tutto il libro, perchè nessuna parola è di troppo. Forse lo farò.

domenica 6 gennaio 2008

ma per favore


Non so perchè - sarà l'età che mi rincoglionisce - sono andato a vedere Irina Palm, film che non poteva che essere brutto. Ma che fosse così brutto non me l'aspettavo, e almeno c'è stata un po' di sorpresa. La trama è quanto di più scontato si possa immaginare: Maggie (una Marianne Faithfull monoespressiva) è la nonna di un ragazzino affetto da rara malattia la cui ultima e unica speranza è una cura nella lontana Australia. Inutile dire che il padre (cioè il figlio di Maggie) non ha un soldo e che nessuno, nella crudele Inghilterra thatcheriana, è disposto a prestargli alcunché. Finchè la nostra Maggie non si imbatte in un sex club in cerca di una "hostess" particolare, ossia una "seghista", che masturba gli uomini attraverso un buco di una parete, senza cioè che questi vedano chi è l'autrice del lavoretto. Inutile ancora dire che Maggie si rivelerà un fenomeno, che raccatterà tutti i soldi che servono per il nipote, che suo figlio si incazza ma poi capisce, che Maggie trova soddisfazione nello scandalizzare le amiche moraliste e ipocrite, che il nipote si salva e che, mioddio, Maggie si innamora, ricambiata, del suo duro magnaccia.
Ma al di là di una sconfortante scontatezza, il film rimane anche sempre in bilico tra il voler essere drammatico (ma dopo aver visto decine di Loach, Leigh e Winterbottom occorre molto molto di più per affrontare la recente storia sociale inglese) e una commedia sul modello dei vari Full Monty, l'Erba di Grace etc etc, non riuscendo mai nè a far sorridere nè tanto meno a far riflettere. Ciliegina sulla torta (rancida) una colonna sonora totalmente inadeguata, due accordi di chitarra ossessivi che farebbero la felicità di Jarmusch (che comunque se li fa fare da Neil Young) ma che qui non c'entrano una beata minchia. Bah.